19.7.14

Bungaburla (Gramellini) (e: «Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto (Ferrarella), e ancora: Innocente a sua insaputa (Travaglio)

Massimo Gramellini  (La Stampa)

Dunque non era un reato, ma solo una gigantesca figura di m. Prima che, sull’onda della sentenza di assoluzione, l’isteria superficiale dei media trasformi il fu reprobo Silvio in un martire, ci si consenta (direbbe lui) di ricordare che il bunga bunga potrà anche essere legale, ma rimane politicamente incompatibile con un ruolo istituzionale quale quello che il sant’uomo rivestiva all’epoca dei fatti.

Tocca ricorrere al solito esempio stucchevole, ma non c’è purtroppo altro modo per fare intendere a certe crape giulive il nocciolo della questione. Se il capo di qualsiasi governo occidentale, poniamo Obama, avesse telefonato dalla Casa Bianca a un funzionario della polizia di New York per informarlo che la giovane prostituta da lui fermata per furto era la nipote del presidente messicano e andava subito consegnata a Paris Hilton invece che ai servizi sociali – e si fosse poi scoperto che Obama medesimo nella sua casa privata di Chicago si intratteneva in dopocena eleganti con la medesima prostituta e una fitta schiera di «obamine» – forse il presidente americano sarebbe stato costretto a dimettersi l’indomani, ma più probabilmente la sera stessa. E allora quell’erotomane di John Kennedy che si intratteneva con due donne al giorno? Intanto è morto prima che lo si scoprisse, ma soprattutto agiva con discrezione, appunto, presidenziale. Non è moralismo. E’ la consapevolezza di rappresentare un Paese senza mettersi nelle condizioni di sputtanarlo a livello planetario. E’ senso dello Stato. Qualcosa che Berlusconi e i suoi seguaci non comprenderanno mai.

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«Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto

In Appello cade anche l’accusa di prostituzione minorile.
L’ex premier non avrebbe saputo dell’età della ragazza

Luigi Ferrarella (Corriere)

Quando ad Arcore ebbe rapporti sessuali con una prostituta di 17 anni, Silvio Berlusconi non era consapevole che Karima «Ruby» el Mahroug fosse appunto minorenne. E la notte del 27 maggio 2010, quando da Parigi telefonò al capo di gabinetto della Questura milanese Pietro Ostuni per anticipargli che sarebbe arrivata la consigliere regionale Nicole Minetti a prendere in carico una ragazza che gli si segnalava come parente del presidente egiziano Mubarak, giuridicamente questa sua telefonata non ebbe contenuto di minaccia (anche solo implicitamente) costrittiva della volontà dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate: costoro, invece, solo per un eccesso di zelo frutto di una propria condizione psicologica di timore reverenziale, operarono poi fino alle 2 di notte per propiziare un esito (l’affidamento di Ruby a Minetti) sicuramente gradito da Berlusconi benché da lui non illegittimamente preteso. È quanto «racconta», in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, il dispositivo della sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Milano (presidente Enrico Tranfa, relatrice Ketty Lo Curto, a latere Alberto Puccinelli) ha cancellato la condanna di primo grado a 7 anni di carcere, e ha assolto nel merito l’ex premier e attuale leader di Forza Italia, senza alcuna prescrizione e senza richiami alla vecchia insufficienza di prove.

Dall’accusa di prostituzione minorile Berlusconi è stato assolto «perché il fatto non costituisce reato», cioè perché nell’imputato mancava l’elemento psicologico che trasforma una condotta (pur verificatasi) in un illecito penale, in questo caso la consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. L’accusa ricavava questa consapevolezza da accenni di Ruby in alcune intercettazioni con amiche (ai quali la difesa contrapponeva però altri spezzoni di segno opposto nelle intercettazioni della ragazza), e da elementi logici come il fatto che a portare Ruby ad Arcore da Berlusconi fosse stato chi (l’ex direttore del Tg5 Emilio Fede) la sapeva minorenne per essere stato suo giurato in un concorso di bellezza in Sicilia: la difesa replicava trattarsi di una deduzione sdrucciolevole, adombrava che Fede (insieme a Lele Mora legato a Berlusconi anche da forti prestiti di denaro) potesse comunque avere magari un interesse a tacere al premier l’età della ragazza, e rimarcava come tutti i testi avessero riferito che Ruby sembrava avere 23/24 anni. L’assoluzione odierna si presta a una curiosità «postuma»: nel senso che la medesima condotta del 2010, se commessa dopo l’entrata in vigore nell’ottobre 2012 della ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007, non sarebbe più stata scriminata, posto che da allora il cliente di una prostituta minorenne non può più invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa minorenne, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, cioè non rimproverabile quantomeno a titolo di colpa.
Sei dei sette anni di pena in primo grado, però, dipendevano dalla concussione, reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità per costringere qualcuno a dargli indebitamente una utilità. Qui Berlusconi è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste», segno che per i giudici non ci fu costrizione dei funzionari della Questura. E nemmeno vi fu una loro «induzione indebita», fattispecie tipizzata nel 2012 dalla legge Severino che, se ieri fosse stata sposata dai giudici, avrebbe condotto a riqualificare il reato e ricondannare l’ex premier, sebbene a pena inferiore.

Sin dall’inizio la concussione era statisticamente impervia visto che (nel caso propugnato dai pm Ilda Boccassini e Antonio Sangermano) la persona «costretta» dal pubblico ufficiale (il premier Berlusconi) era anch’essa un pubblico ufficiale (il capo di gabinetto della Questura). Non è un caso, dunque, che in questi giorni sia l’arringa dei difensori Franco Coppi e Filippo Dinacci, sia i tavoli dei giudici avessero (oltre alla sentenza delle Sezioni Unite su concussione/induzione) un libro in comune: quello di Gianluigi Gatta (professore associato di diritto penale alla Statale di Milano, «scuola» Marinucci-Dolcini) sulla condotta penalmente rilevante di «minaccia». Muovendo dall’osservazione del giurista Carrara sulla matrice latina del termine «concussione» («l’idea dello scuotere un albero per farne cadere i frutti»), lo studioso nel 2013 propendeva per l’idea che la minaccia, per essere presupposto di una concussione, dovesse essere un fatto aggressivo/prevaricatore ben diverso dal mero timore reverenziale che il soggetto passivo può provare nei confronti del superiore gerarchico, all’interno della propria condizione psicologica e senza che questo timore reverenziale sia determinato dalla minaccia esterna del soggetto attivo. Coppi aveva perciò sostenuto che, «se il concusso è idealmente solo chi sia preso per il collo e messo spalle al muro di fronte a un aut-aut, sotto inesorabile minaccia, questo non è il caso di Ostuni, i cui moti interni non dipendono dalla condotta di Berlusconi, ma dalla soggezione psicologica verso chi ha ruolo superiore.

Chi non ha il coraggio di dire no, non è protetto dal diritto: se Ostuni al massimo si è sentito condizionato dalla richiesta di Berlusconi, se ha avuto timore reverenziale verso chi magari ha pensato di compiacere, questi (lo dico elegantemente) sono fatti suoi, non ricollegabili a una minaccia di Berlusconi». Il pg Piero de Petris indicava l’architrave della concussione nella balla di Berlusconi sulla storia di Ruby parente di Mubarak: «Poiché la Questura già in pochi minuti verifica che non è vero, il potenziale intimidatorio percepito da Ostuni sta proprio nella falsità della parentela con Mubarak prospettata da Berlusconi come foriera di un incidente diplomatico con l’Egitto: e dunque Ostuni esegue la prestazione richiesta da Berlusconi (affidare Ruby a Minetti) in esecuzione dell’ordine ricevuto, e non certo perché indotto dalla storia dell’inesistente parentela» o da un generico «timore reverenziale verso il premier». Argomento rovesciato dalla difesa: «Solo un pazzo incosciente avrebbe usato una bugia con le gambe cortissime: era invece segno che Berlusconi credeva davvero Ruby parente di Mubarak, e non la sapeva minorenne, tanto da poi subito allontanarla. La riprova è che, quando dopo 8 giorni Ruby è di nuovo in Questura, nessuno più fa nulla e Ruby finisce in comunità».

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Innocente a sua insaputa
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Cambiata la legge salvato il Caimano

Ormai è un giochino un po’ frusto, ma ben si attaglia al nostro caso: Silvio Berlusconi è innocente a sua insaputa. Da settimane sia lui sia i suoi legali davano per scontata una condanna anche in appello, almeno per le telefonate intimidatorie alla Questura di Milano per far affidare Ruby al duo Minetti-Conceicao, ed escludevano dal novero delle cose possibili la sconcertante assoluzione plenaria che invece è arrivata ieri. Speravano in uno sconto di pena per la concussione; e confidavano nella vecchia insufficienza di prove per la prostituzione minorile. Non era scaramanzia, la loro. E neppure sfiducia congenita nelle “toghe rosse”, nel “rito ambrosiano” e nei giudici “appiattiti” sui pm: questa è propaganda da dare in pasto agli elettori-tifosi più decerebrati. Ma B. e i suoi avvocati sanno benissimo che ogni collegio giudicante fa storia a sé, come dimostrano i tanti verdetti favorevoli al Caimano proprio a Milano (molte prescrizioni, anche grazie a generose attenuanti generiche, e poche assoluzioni).

Perché allora l’avvocato Coppi confessa, in un lampo di sincerità, che l’assoluzione va al di là delle sue più rosee aspettative? Perché sa bene che il primo dei due capi di imputazione, quello sulle ripetute telefonate di B. dal vertice internazionale di Parigi ai vertici della Questura, è un fatto documentato e pacificamente ammesso da tutti: ed è impossibile negare che, quando un capo di governo chiede insistentemente un favore a un pubblico funzionario, lo mette in stato di soggezione o almeno di timore reverenziale. Che, nel diritto penale, si chiama concussione. Magari non per costrizione (come invece ritenne il Tribunale), ma per induzione (come sostennero la Procura e, nel nostro piccolo, anche noi con l’articolo di Marco Lillo di qualche giorno fa). Se il processo si fosse concluso entro il 2012, entrambe le fattispecie di concussione sarebbero rientrate nello stesso reato, con pene graduate. Il 30 dicembre 2012, invece, il governo Monti e la maggioranza di larghe intese Pd-Pdl varò la legge Severino che scorporava l’ipotesi dell’induzione, trasformandola in un reato minore, di cui rispondono anche le ex-vittime trasformate in complici (ma la Procura di Bruti Liberati, testardamente, ha sempre difeso i vertici della Questura, insistendo a considerarli vittime). In pratica, nel bel mezzo della partita, si modificò la regola del fuorigioco, alterando il risultato finale. Cambiata la legge, salvato il Caimano. Ora vedremo dalle motivazioni della sentenza in che misura quella scriteriata “riforma”–fatta apposta per salvare Penati e B., nella migliore tradizione dell’“una mano lava l’altra”, anzi le sporca entrambe – ha inciso sul verdetto di ieri. Ma il sospetto è forte, anche perché – come osserva lo stesso Coppi – “i giudici non potevano derubricare il reato” dalla concussione per costrizione al nuovo reato di induzione: le sezioni unite della Cassazione, infatti, hanno già stabilito che l’induzione deve portare un “indebito vantaggio” a chi la subisce. E i vertici della Questura non ebbero alcun vantaggio indebito, affidando Ruby a Minetti&Conceicao: al massimo evitarono lo svantaggio indebito di essere trasferiti sul Gennargentu. Dunque pare proprio che la sentenza di ieri, più che Tranfa (il presidente della II Corte d’appello), si chiami Severino. Vedremo se reggerà davanti alla Cassazione. Che potrà confermarla, chiudendo definitivamente il caso; oppure annullarla per motivi di illegittimità, ordinando un nuovo processo di appello e precisando esattamente i confini della costrizione e dell’induzione. E non osiamo immaginare che accadrà se nel processo Ruby-ter si accerterà che le Olgettine, principali testimoni del bunga-bunga, sono state corrotte dall’imputato del Ruby-uno per mentire ai giudici: ce ne sarebbe abbastanza per una revisione del processo principale, inficiato dalle eventuali false testimonianze di chi avrebbe potuto provare ciò che, a causa delle loro menzogne, non fu ritenuto provato. Nell’attesa, alcuni punti fermi si possono già fissare. 1) Chi sostiene che questo processo non avrebbe mai dovuto iniziare non sa quel che dice. Il giro di prostituzione, anche minorile, nella villa di Arcore, così come le telefonate di B. alla Questura, sono fatti assolutamente accertati, dunque meritevoli di una verifica dibattimentale (doverosa, non facoltativa) in base a due leggi del governo B. (Prestigiacomo e Carfagna sulla prostituzione minorile) e a una terza votata anche dal Pdl (Severino). Tantopiù che la Corte d’appello, se giudica insussistente il fatto (cioè il reato) della concussione/ induzione, ritiene che invece il fatto degli atti sessuali a pagamento con Ruby sussista eccome, ma non costituisca reato (forse per mancanza di dolo o “elemento soggettivo”: cioè perché non è provato che B. sapesse della minore età di Ruby). 2) L’assoluzione in appello non significa che la Procura che ha condotto le indagini e il Tribunale che ha condannato B. abbiano sbagliato per dolo e colpa grave e vadano dunque puniti in base alla tanto strombazzata “responsabilità civile”: sia perché gli errori giudiziari non sono soltanto le condanne degli innocenti, ma anche le assoluzioni dei colpevoli, sia perché tutti i magistrati hanno deciso in base al proprio libero convincimento sulla base di un materiale probatorio che, dal punto di vista fattuale, è indiscutibile (i soli dubbi riguardavano se B. avesse consumato atti sessuali con Ruby e se fosse consapevole dell’età della ragazza, che indubitabilmente si prostituiva lautamente pagata). 3) Il discredito nazionale e internazionale per B. non è dipeso dalla condanna di primo grado (giunta soltanto un anno fa, dopo la sconfitta elettorale), ma dai fatti emersi dalle indagini con assoluta certezza: il giro di prostituzione nelle sue ville, l’abuso di potere delle telefonate alla Questura, i milioni di euro alle Olgettine dopo l’esplodere dello scandalo e le tragicomiche giustificazioni (“nipote di Mubarak”, “cene eleganti” e simili) sfoderate dal protagonista su quelle condotte indecenti. Indecenti in sé: lo erano ieri e lo sono anche oggi. A prescindere dalla loro rilevanza penale, visto che nessuna sentenza di assoluzione potrà mai dire che quei fatti non siano avvenuti. 4) Sarebbe puerile collegare la sentenza di ieri con l’atteggiamento remissivo di B. sulle “riforme” e sul governo Renzi: se il Caimano s’è trasformato in agnellino, anzi in zerbino del Pd, è perché spera sempre nella grazia da Napolitano o da chi verrà dopo (che lui confida di concorrere a eleggere con la stessa maggioranza delle “riforme”). Non certo perché i giudici, giusti o sbagliati che siano i loro verdetti, prendano ordini dal governo o dal Pd. Altrimenti non si spiegherebbero le tre condanne in primo grado che B. si beccò fra il 1997 e il ’98, nel bel mezzo dell’altro inciucio: quello della Bicamerale D’Alema. 5) Nessuna sentenza d’appello può più “r i abilitare” B.: né per i fatti oggetto del processo Ruby, che sono in gran parte assodati; né per quelli precedenti, che appartengono ormai alla storia, anzi alla cronaca, e nera. Ieri si è deciso in secondo grado sulle telefonate alla Questura e sulla prostituzione minorile di Ruby, non si è condonata una lunga e inquietante carriera criminale. Quale reputazione può mai invocare un pregiudicato per frode fiscale, ora detenuto in affidamento in prova ai servizi sociali, che per giunta si circondava di un complice della mafia come Dell’Utri, attualmente associato al carcere di Parma, e di un corruttore di giudici per comprare sentenze in suo favore come Previti, cacciato dal Parlamento e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici? Mentre si discute sul reato o meno di riempirsi la casa di mignotte, e si chiede ai giudici di dirci ciò che sappiamo benissimo da noi, si dimentica che in quella stessa casa soggiornò per due anni il mafioso sanguinario Vittorio Mangano. Nemmeno quello è un reato: ma è un fatto. Molto più grave di tutti i reati mai contestati all’imputato B. Erano i primi anni 70 e Renzi non era ancora nato. Ma è bene ricordarglielo, specialmente ora che il Caimano rialza il capino. Quousque tandem, Matteo, gabellerai l’ex Papi Prostituente per un Padre Costituente?

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