19.3.15

Ma la nostra sinistra vive ancora nel '900

Massimo Cacciari (L'Espresso)

Altrove, le trasformazioni globali hanno creato partiti nuovi e pragmatici contro le disuguaglianze. In Italia invece prevale sempre il sonno dogmatico

Come si è giunti a una crisi tanto radicale di quelle correnti politiche che ereditavano in Italia tradizioni,e uomini, della sinistra novecentesca? Come è possibile che una storia di tale portata, la storia del "movimento operaio" italiano, sembri contrarsi oggi all'azione di una minoranza debole e divisa del Partito di Renzi, del tutto subalterna a fatti e misfatti di quest'ultimo? Le cause sono molteplici, non c'è dubbio, e anzitutto di ordine materiale: sono strutturalmente mutati i rapporti di produzione e di classe, è finita l'Italia della grande industria e dell' "operaio massa", la grande rivoluzione tecnologica del nuovo Millennio ha rivoluzionato culture e forme di vita. Ma si tratta di processi irreversibili che hanno interessato tutte le società europee e hanno più o meno drammaticamente colpito tutti i loro sindacati e tutte le loro socialdemocrazie. Perché solo da noi sembrano averne cancellato ogni traccia? E perché in altri Paesi il loro crollo ha pure prodotto nuovi, giovani movimenti "di sinistra", i Podemos e gli Tsipras, mentre in Italia l'immenso spazio politico della protesta, gli effetti sociali della grande crisi da cui siamo lungi dall'essere usciti, sono stati capitalizzati esclusivamente dai Grillo e ora pure dai Salvini? Temo che la domanda nasconda un errore fatale di prospettiva. E l'asfittica sedicente "sinistra" italiana che si consola collocando nel proprio solco quelle esperienze. E sperando una propria rinascita sul loro modello. In realtà esse esprimono proprio l'esaurirsi della "geografia" politica novecentesca, non hanno nulla a che fare con i contenuti tradizionali di "destra" e "sinistra". La loro "ideologia" è un'arma leggerissima, un' " aura " piuttosto che un'arma, e la loro forza sta nel restare ancorati in modo assolutamente pragmatico alle ragioni della protesta, e cioè al dilagare delle disuguaglianze, dell'insicurezza e delle paure. L'agilità tattica con cui si muove uno Tsipras è la naturale conseguenza di questa collocazione del suo movimento. Rivolto interamente ad affrontare la crisi nella sua concretezza, a tentare di rispondere al dramma di chi la vive in carne ed ossa.
DEGLI ORIZZONTI STRATEGICI meglio per ora tacere. La "politica al comando" è un lusso retorico che oggi non ci possiamo permettere. Da questo punto di vista, i Podemos e gli Tsipras appaiono anche mille leghe oltre Madame Le Pen e Monsieur Salvini, zavorrati da arcaiche ideologie regressive. Ma, per analoghi motivi, neppure hanno a che fare con le disperse membra della nostra "sinistra", che proprio quelle trasformazioni e quella crisi che hanno espresso gli Tsipras non ha saputo né comprendere né rappresentare. Ammesso e non concesso che le nuove forze spagnole e greche possano dirsi "sinistra", esse sono lontane dalla nostra tradizionale quanto lo è Renzi. Renzi ne esprime il superamento nel senso di un decisionismo populistico, che svuota il ruolo del binomio indissolubile Parlamento-sistema dei partiti. Si tratta di una formidabile tendenza del nostro tempo, che gli eredi del "movimento operaio" si ostinano da decenni a non voler vedere,e quindi a non saper in alcun modo contrastare. I Podemos e gli Tsipras, da parte loro, invece, si oppongono a tale tendenza ricalcando esattamente la figura del tribuno del popolo. La loro è auctoritas tribunicia nel senso più proprio. Ma è estremamente difficile per il tribuno imporre la legge, svolgere duratura azione di governo in perenne lotta col Senato (alias, i "decisori" ultimi delle politiche europee). La cultura politica del tribuno può solo occasionalmente giungere ad esprimere una energia riformatrice, in grado di mutare l'intero assetto della res publica. Abbiamo così una vecchia sinistra conservatrice che si batte contro la prospettiva incarnata da Renzi in nome di principi, regole e assetti istituzionali, estranei ogni giorno di più agli interessi effettivi della base sociale che essa dovrebbe rappresentare e una "nuova sinistra" di tipo tribunizio, incapace di affrontare la crisi dell'idea stessa di rappresentanza, che stiamo vivendo, al suo livello proprio, quello storico, di sistema.
UNA DOZZINA D'ANNI FA in Italia si fu sul punto di veder nascere un grande Podemos, che forse avrebbe potuto anche svegliare dal proprio sonno dogmatico la sinistra conservatrice. Ma, ahimè, si rivelò subito che il suo leader (vero Sergio?) era culturalmente consustanziale proprio a quest'ultima... e anche da quell'aborto ci vennero Grillo e grillini. Per molti motivi, per il bene stesso della nostra malatissima democrazia, è sperabile che quella opportunità si ripresenti, ma il dramma di allora ritornerà come pura farsa se saranno gli stessi, insieme ai loro nati stanchi epigoni, a volerla interpretare.

8.3.15

Con i fascisti non si discute

Luigi Manconi, sociologo (Internazionale)

Sarà stato un decennio fa quando, un pomeriggio di un giorno di maggio, ricevo una telefonata di Tullia Zevi, la più autorevole esponente dell’ebraismo italiano. È particolarmente turbata e mi spiega il motivo.

Ha appena ricevuto l’invito da parte del notissimo conduttore di una notissima trasmissione a partecipare a un dibattito televisivo. In studio sarà presente lo storico revisionista Robert Faurisson, che ha appena pubblicato un volume sulla Shoah (ovvero sulla falsità della Shoah).

Dopo la presentazione della sua tesi, ci sarebbe stato il confronto tra la Zevi e uno storico italiano piuttosto favorevole invece alla posizione di Faurisson.

Insomma, tema: “I lager non sono mai esistiti”, e poi: “uno a favore, uno contro”.

A Tullia Zevi si chiedeva ovviamente di fare la parte del “contro”.

Di fronte al suo netto rifiuto di interpretare quel ruolo, il conduttore mostrò sincera sorpresa. Non riusciva proprio a comprendere il motivo di quella decisione: per lui, la composizione di quel dibattito rappresentava la realizzazione del pluralismo nella sua forma massima e perfetta.

E poi perché temere il confronto, quando – confermava rassicurante il giornalista – si sta dalla parte della ragione e della verità storica?

Quest’ultimo argomento è certamente il più interessante. Quel conduttore non aveva la minima intenzione di negare l’esistenza delle camere a gas, ma pretendeva di affermare un’interpretazione, per così dire, illimitata e incondizionata del pluralismo. Ovvero una concezione tecnica e neutrale della dialettica democratica e del libero confronto tra opzioni diverse. In altre parole, una manifestazione estrema e pienamente compiuta della lottizzazione delle idee, nella sua rappresentazione plastico-teatrale.

Al centro, il Male Assoluto (Faurisson). E ai lati, sullo stesso piano e livellati da ruoli precisamente speculari, il Bene (Tullia Zevi) e il Dubbio (lo storico italiano moderatamente revisionista). Provvidenzialmente, la cosa non andò in porto e si è evitato, così, uno di quegli innumerevoli strazi quotidianamente perpetrati ai danni dell’intelligenza e del buon gusto.

L’episodio mi è tornato in mente nell’apprendere quanto è accaduto nel corso della trasmissione Piazza pulita lunedì scorso e quanto ha scritto in merito Gad Lerner.

Nel suo blog, Lerner cita l’eurodeputato leghista Gianluca Buonanno, che “ha definito i rom ‘feccia dell’umanità’, con l’effetto spettacolo di averlo detto in faccia a Djana Pavlovic con sottofondo di applauso meccanico dei figuranti in sala”.

Spiegando come quell’episodio corrisponda a una sorta di format televisivo assiduamente reiterato (e oggi concentrato, in particolare, sull’ostilità contro rom e sinti), Lerner ha proposto un antidoto, “rapido efficace, silenzioso: basta dire no grazie. O noi o loro. Non partecipare a quelle oscene rappresentazioni. Lasciare vuote le sedie dei talk show che invitano ogni giorno Salvini, Borghezio, Buonanno”.

Sono incondizionatamente d’accordo. Da molti anni adotto tacitamente quel comportamento, rifiutandomi di prendere parte a confronti con esponenti leghisti o cripto-fascisti. Ma, certo, il dichiararlo e assumerlo come impegno collettivo (da parte di donne e uomini di buona volontà e di buon senso) sarebbe tutt’altra cosa.

Purtroppo è facile prevedere che la proposta di Lerner sarà destinata all’insuccesso: si troverà sempre qualcuno, e intendo dire proprio qualcuno a sinistra, che sciorinerà efficacissimi e callidissimi argomenti per spiegare l’utilità – invece – di affrontare “a pie’ fermo e a viso aperto” le posizioni fascio-leghiste. Io sono convinto che questo sia l’atteggiamento più sbagliato e l’intera storia dei talk show televisivi sta lì a dimostrarlo inequivocabilmente.

C’è poi da aggiungere una sommessa considerazione teorica qualora si volesse porre la questione su un piano generale, di metodo e di sistema. Una scelta, come quella suggerita da Lerner, non ha un effetto discriminatorio, dal momento che non mira a escludere dal circuito del discorso pubblico determinate posizioni (cosa per altro impossibile, oltre che errata).

Quella scelta intende, piuttosto, auto-escludersi da un confronto che risulta privo dei requisiti indispensabili per essere effettivamente tale. Ovvero la condivisione tra gli interlocutori di un minimo di opzioni morali e di regole di linguaggio. Come è possibile discutere con chi ritiene che una determinata minoranza sia “la feccia dell’umanità”?

Le mimose lasciatele a casa

Lea Melandri (Il manifesto)

Chissà per­ché la ricor­renza di un evento lut­tuoso — quale è stato sto­ri­ca­mente l’8 marzo — è diven­tata, prima la «gior­nata» e poi «la festa della donna»?

Per anni ho costretto me stessa a darle un senso, più che altro per il rispetto dovuto a tutte le asso­cia­zioni, gruppi fem­mi­nili e fem­mi­ni­sti che avreb­bero preso quell’occasione per incon­tri e dibat­titi su temi di comune interesse.

Oggi, di fronte ai rima­su­gli penosi, che escono dalle radio, dalle tele­vi­sioni e dai gior­nali, di quella che per­vi­ca­ce­mente, ver­go­gno­sa­mente resta la «que­stione fem­mi­nile» — le donne con­si­de­rate alla stre­gua di un gruppo sociale svan­tag­giato o come un «genere» da ugua­gliare o tute­lare sulla base dell’ordine creato dal sesso vin­cente -, ho un desi­de­rio forte e deciso:
– che non se ne parli più
– che nes­suna data venga d’ora innanzi a far da velo a uno dei rap­porti di potere che oggi, molto più che in pas­sato, appare sco­per­ta­mente come la base di tutte le forme di domi­nio che la sto­ria ha cono­sciuto, nella nostra come nelle altre civiltà
– che si dica con chia­rezza che non di «cose di donne» stiamo par­lando, ma dell’idea di viri­lità che ha deciso dei destini di un sesso e dell’altro, della cul­tura e della sto­ria che vi è stata costruita sopra, nel pri­vato come nel pub­blico
– che gli uomini si pren­dano la respon­sa­bi­lità di inter­ro­garsi sulla vio­lenza di ogni genere per­pe­trata nei secoli dai loro simili, e che lo fac­ciano, come hanno fatto le donne, «par­tendo da se stessi», con­sa­pe­voli che sono inda­gando a fondo nella sin­go­la­rità delle vite e delle espe­rienza per­so­nali pos­siamo sco­prire le radici di una visione del mondo che ci acco­muna, al di là di spazi e tempi.

Non sono pre­giu­di­zial­mente con­tra­ria alle ricor­renze, ma vor­rei che, senza stor­piarne o bana­liz­zarne il signi­fi­cato, diven­tas­sero per tutti un momento di rifles­sione: rico­no­sci­mento degli inter­ro­ga­tivi che vi sono con­nessi e delle aspet­ta­tive di cam­bia­mento che da lì si pos­sono aprire.

Non è stato così per l’8 marzo, che ha visto un tema di pri­ma­ria impor­tanza per la crisi che stanno attra­ver­sando la poli­tica, l’economia e la civiltà stessa — la rela­zione tra i sessi, la divi­sione ses­suale del lavoro, la dico­to­mia tra pri­vato e pub­blico, natura e cul­tura, ecc.- restrin­gersi pro­gres­si­va­mente a pochi scam­poli riven­di­ca­tivi det­tati dall’endemica «mise­ria femminile».

A quante mi obiet­te­ranno che così si toglie un’opportunità di por­tare allo sco­perto, sia pure per un giorno solo, il fati­coso lavoro car­sico del movi­mento delle donne, rispondo che può essere, al con­tra­rio, la spinta a creare da noi stesse le occa­sioni di incon­tro che ci ser­vono, senza atten­dere che ci ven­gano offerte da altri, con un maz­zetto di mimose.

2.3.15

Limonov: “Dietro questo delitto non solo la politica. Ma per Putin è un vero problema”

Nicola Lombardozzi (repubblica.it)

MOSCA . Eduard Limonov non si smentisce mai: "Un complotto del Cremlino? Una provocazione esterna? Ma non fatemi ridere. Se avessero ammazzato il vero leader dei liberali, Aleksej Navalnyj, potrei capire. Ma Nemtsov, per i russi era solo un politico in pensione. Uno che, per di più, era stato protagonista nell'era Eltsin che qui ha lasciato ricordi di ingiustizie, ruberie, corruzione. Tra qualche giorno lo avranno già dimenticato tutti, amici e nemici". Cinico e controcorrente, lo scrittore russo tiene fede al personaggio raccontato da Emmanuel Carrère in una biografia che due anni fa gli ha donato fama internazionale: "Mi dispiace deludere tanta gente di buona volontà, ma vedrete che questo assassinio non porterà alcuna conseguenza".

Tutto il mondo si indigna per l'omicidio di un oppositore di primo piano, di un uomo coraggioso. Come fa a minimizzare così?
"Non minimizzo niente. Dico solo che se dietro al delitto ci fosse un qualsiasi piano politico, sarebbe un piano stupido e destinato a fallire".
Da anni Nemtsov denunciava scandali e malefatte di Putin e i suoi con libri e documenti. Stava raccogliendo materiale sulla presenza militare russa in Ucraina.

Aveva anche detto che il Cremlino voleva ucciderlo. Le sembra così poco?
"Tutti quelli che stanno all'opposizione, perfino io, abbiamo ogni tanto la sensazione di rischiare la vita. Nemtsov lo conoscevo bene, era un uomo di spirito, colto e brillante. Ma le sue denunce erano solo un chiacchiericcio isterico senza le prove o particolari inediti. Faceva molta scena all'estero ma non smontava certamente il personaggio Putin qui in Russia".

Tra i nemici di Nemtsov c'erano anche molti oppositori come lei, nostalgici di una certa visione dell'Unione Sovietica. Quando disse che la Crimea andava restituita all'Ucraina, lei lo aggredì, altri lo insultarono pesantemente. Non potrebbe essere questo un movente possibile?
"Sulla Crimea, ma anche sulla sorte del Donbass, gli oppositori sono divisi e questo è evidente. Lui faceva parte di quella minoranza, poche decine di migliaia di persone, che si attiene alla lettera alle posizioni occidentali. Mentre tra i tanti che contestano Putin resta forte il sentimento nazionale. Ma, ripeto, Nemtsov non aveva lo spessore per fare paura a nessuno".

E allora come spiega il delitto?
"So che rischio di smontare tante teorie fantapolitiche, ma non escluderei una questione marginale, privata. Ci sono tanti aspetti strani".

Per esempio?
"Stava con una giovane modella ucraina di Kiev, e questo basterebbe a farne una spy story. Ma il delitto resta misterioso: a un passo dal Cremlino nella zona a più alta concentrazione di telecamere di sorveglianza di tutta la Russia. In più, pare, con un arma non proprio da professionisti...".

Non vorrà ridurre tutto a un delitto passionale?
"Non mi va di escluderlo a priori. Ma in ogni caso ragioniamo. Al Cremlino questo delitto crea seri problemi di immagine internazionale e credo che Putin sia sinceramente contrariato. E non posso nemmeno credere alla tesi del complotto occidentale, voi giornalisti direste "l'ombra della Cia", per sollevare le piazze, fare tremare dalle fondamenta il regime di Putin. Solo gli idioti possono pensare che i liberali russi siano in grado di fare un'insurrezione".

Perché?
"Perché l'opposizione in Russia oggi non c'è. Dopo le manifestazioni di due anni fa, le leggi sono state cambiate e si è lavorato di fino su arresti e persecuzioni giudiziarie. Anche il malumore popolare dovuto alla crisi economica è stato contenuto abbastanza bene. E le sanzioni sono state usate per cementare lo spirito nazionale della gente. Non vedo rivolte dietro l'angolo".