28.10.09

Gli uomini, i trans e quel mondo dove non c’è posto per le donne

Marina Terragni

Ricordate il vecchio Freud, di fronte al mistero delle «sue» isteriche? Che cosa vuole una donna? si lambiccava il cervello. Una risposta precisa non seppe trovarla neanche lui. Al tempo dei patriarchi la sessualità maschile era la norma, e quella delle donne un oscuro tumulto non autorizzato. Ma un uomo?

Che cosa vuole, un uomo? verrebbe voglia di chiedergli oggi. Perché dei desideri delle donne ormai si sa tutto. Dalle autovisite in avanti, il mistero è stato pubblicamente scandagliato per almeno mezzo secolo. E i desideri degli uomini? Ecco, ti pare di avere proprio tutto: la vita che volevi, il lavoro, e poi la casa, il conto in banca, e la famiglia, i figli e forse— che esagerazione! — perfino l’amore. Poi un bel giorno, per ricatto o per puro caso, vieni a sapere di una certa Brenda o Nazaria o Wynona che come un’oscena badante si prende cura del padre dei tuoi figli. E all’epicentro del terremoto che fa crollare la tua vita perfetta, un maestoso fallo con cui non c’è possibilità di gara.

Una nuova versione dell’invidia del pene? «A un’altra donna, tutto sommato, sei sempre pronta», racconta una che c’è passata. «Soprattutto sui 50, quando diventano fascinosi e brizzolati e cominciano a tentennare. Sai che vanno in cerca di conferme. E se capita, dopo un po’ di purgatorio magari te li riprendi pure in casa. Ma così...» si mette le mani tra i capelli. «Ed era anche un mostro.

Che cosa fai, con una rivale che ha il 44 di piede e siliconi della sesta?». Il modello manca. C’è tutta una genealogia di tradite lacrimose a cui riferirsi quando si tratta «banalmente» di una donna: le madri, le nonne; le crisi di nervi della principessa Maria Stella Salina, quando il Gattopardo Don Fabrizio, stampatole un brusco bacio sulla fronte, lascia Donnafugata per una fuga in carrozza dalla sua favorita. Le convenienti ritrosie della moglie a cui tocca convivere con la lascivia autorizzata dell’amante. Una poligamia informale. Le cose andavano così, quando il patriarcato aveva dato al mondo il suo ordine: per quanto discutibile, almeno riconoscibile.

Una saprebbe regolarsi perfino se l’altra fosse inequivocabilmente un altro. Ormai anche qui qualche precedente si è accumulato. Ti puoi anche disperare come Julianne Moore, moglie anni Cinquanta in «Lontano dal paradiso», di fronte al coming out del tuo amato sposo, ma non puoi non comprendere. E dopo un ragionevole periodo di assestamento, se hai un’anima sufficientemente grande puoi anche continuare ad amare. Come una sorella. Non tutto è perduto. Ma di fronte a Brenda, Nazaria o Wynona ti va in pappa il cervello: che cos’ha? È gay? Non sta bene? O è semplicemente un maiale? Chi chiamo? L’avvocato, uno psichiatra o l’esorcista?

Non è un caso, per quanto possa apparire pazzesco, che oggi la sessualità maschile sia diventata una questione politica. Il fatto è che si tratta davvero di una questione politica. Che cosa sono gli uomini, crollata la narrazione patriarcale? Su che cosa puntellano la loro identità se non possono più contare sul dominio delle donne? Che cosa ne è della loro maestosa cultura e del mondo che ci hanno costruito sopra, se le fondamenta sono piene di crepe? Non c’è proprio niente da ridere. La pochade della nostra trans-repubblica — ricatti, contro-ricatti, gente in mutande, partouze, mercimoni, filmini, escort che chiacchierano, mogli che sbarellano — è solo la divertente parodia. Sotto, le lugubri note di una danse macabre di fine civiltà.

Questo delle trans non è solo un vizietto per potenti. Se una metà abbondante di chi fa il «mestiere» è pene-dotata, è perché esiste una corrispondente — e ipocrita — domanda da parte di un’enorme quantità di impiegati, ragionieri, amministratori di condominio, onesti padri di famiglia. Ok il seno e un nasino femminile, ma nessuna operazione definitiva. «Quello» lo si tiene, o si perderebbero i clienti che a quel punto si rivolgerebbero a «semplici» donne (e sai la noia...). «Perfino i papponi — conferma Ginny, pioniera operata a Londra più di trent’anni fa — oggi chiedono alle ragazze di mettersi su da travestiti»: sei una donna, d’accordo, ma cerca almeno di sembrare un uomo che vuole sembrare una donna… Vertiginoso!

La trans del resto è un modello universale, valido anche per le comuni rifatte, quelle rispettabili signore tumefatte e zigomate che fanno shopping in via Condotti o su Park Avenue. Non è forse da travestito quella loro facies chirurgica, la stessa di tante opinioniste «zero tituli» dei nostri salotti tv? Qualcosa vorrà pur significare. Il trans oggi ha un’audience strepitosa: dopo Silvia, MtF — da uomo a donna — al Grande Fratello è la volta di un più raro FtM. E Maurizia Paradiso, che rivela a Pomeriggio 5 la sua prossima pater-maternità grazie all’utero della modella colombiana Francine...

Ginny spiffera i nomi (irriferibili) di vari ricchi e famosi, abituali degustatori della specialità maschio-con-tette: a quanti tremeranno i polsi! E dice che questo andazzo è cominciato a metà anni Ottanta, con l’invasione dei viados brasiliani. O non è piuttosto che i viados sono accorsi a frotte per corrispondere a una domanda maschile emergente: giacere con uomini parzialmente adattati a donne?

Tra i pochi disposti a parlarne — per il resto, omertoso, complice, imbarazzato silenzio — l’ex calciatore francese Éric Cantona, che in un’intervista ha ammesso: «La donna ideale potrebbe essere un travestito, perché ha un po’ di entrambi». E su «Via Dogana», periodico della Libreria delle Donne di Milano, Stefano Sarfatti Nahmad dice: «Comincio a credere che gli uomini che sono interessati al pieno godimento sessuale troveranno più facilmente quello che cercano scegliendo un rapporto omosessuale».

Ma forse non è tanto, riduttivamente, questione di essere o non essere gay. Traditi e abbandonati dalle donne, mortificati dalla loro autonomia, sfiniti dalla loro libertà e dalla loro voglia di stravincere, molti maschi regrediscono a un consolatorio «tra uomini». Un mondo a cui le donne non hanno accesso: solo maschere di donne, come sulle scene del teatro medievale; solo pseudo-donne, a misura di un immaginario semplificato e un po’ autistico. Un’omosessualità spirituale e culturale che può contemplare anche un passaggio strettamente sessuale.

Mi scrive, straordinariamente sincero, un lettore sul blog: «Il vero unico desiderio è vivere momenti di bel cameratismo con altri maschi... Anche il travestito ama esclusivamente il mondo maschile e ritiene che la sua 'missione' sia dare amore ad altri maschi, di cui comprende le sofferenze profonde che nessuna donna potrebbe lenire». Non varrebbe la pena di pensarci un po’ su? Dispensatrici di bellezza e di gioia, le donne hanno rinunciato per sempre a questa prerogativa divina? Valgono questo prezzo, i loro strepitosi guadagni? Per completezza d’informazione chiedo a Ginny, che ne ha viste e ne ha passate tante, che cos’ha capito in definitiva del sesso degli uomini: «Mah... — riflette —. Che ci pensano sempre. E che sono strani».

25.10.09

Piccolo mondo antico

Barbara Spinelli

Il ministro dell’Economia ha dato un’occasione al Pd, che oggi affronterà le primarie e sceglierà una guida nuova. Difendendo il valore del posto fisso, presentandolo come la cosa calda anelata quando gela, affermando che nel modello europeo non si può organizzare un progetto di vita e di famiglia se il posto è variabile, incerto, Tremonti ha evocato un ingrediente essenziale del socialismo: ha evocato la stoffa dei suoi miti, delle sue mobilitazioni. Alcuni dicono addirittura che il ministro abbia astutamente rubato alla sinistra un tema che dovrebbe figurare nei suoi programmi, lasciandola sgomenta e muta. Si è appropriato della questione sociale, facendosi interprete del mondo che soffre una degradazione del lavoro destinata ad acutizzarsi.

La realtà è non poco diversa tuttavia, e la vera occasione per gli eredi del socialismo e del cattolicesimo sociale è di penetrare tale realtà.

Di dire il volto che ha oggi la questione sociale, di costruire su essa un nuovo corpo di dottrine, di sfatare le illusioni. Un primo passo importante l’ha fatto Franceschini, intervistato dal Sole - 24 Ore del 22 ottobre: «Alla retorica di Tremonti, io oppongo i fatti. E i fatti dicono che la flessibilità fa parte delle società moderne. Piuttosto il governo non fa nulla per arginare la precarietà. Lancio la sfida al ministro dell’Economia e chiedo di agire su due fronti. Primo: togliere convenienza economica ai contratti precari (...). Secondo: riforma degli ammortizzatori. Insisto: basta con la logica delle deroghe, servono protezioni sociali per l’operaio che perde il posto, per l’artigiano e per i giovani con contratti flessibili».

L’errore è forse quello denunciato da Kant: si parla di valore, quando si dovrebbe parlare di dignità. Si riempie di valore qualcosa che non ha rapporti con il reale ma con ricordi, nostalgie. Su una cosa Tremonti non ha torto: contrariamente a ciò che è stato detto nei giorni scorsi, anche a destra, il posto fisso non è un male, un fossile. Troppo facile liquidare così un mito che occupa le menti di tante persone in bilico, ed è quella «goccia del passato vivente» che secondo Simone Weil va conservata gelosamente e portata nel futuro, perché non cresca lo sradicamento del lavoro. Il lavoro stabile è quella goccia ­ più del posto fisso ­ ed è ovvio che nell’immaginario resti un bene: come potrebbe non essere così?

È un bene, tuttavia, riservato a sempre meno esseri umani. I lavoratori instabili e precari sono quasi 4 milioni (il 15 per cento degli occupati).

Fra il gennaio 2008 e il gennaio 2009, solo il 23 per cento delle assunzioni si è concretizzato in un contratto a tempo indeterminato, e di questi contratti solo il 3 per cento si è stabilizzato (al Sud l’1,7).

L’economista Tito Boeri spiega come nel mercato del lavoro si assuma «quasi solo con contratti temporanei: 4 nuovi rapporti di lavoro su 5 vengono istituiti fissando una data di scadenza, spesso molto breve. La percentuale sarebbe ancora più alta se si tenesse conto che molti contratti formalmente a tempo indeterminato per le badanti sono in realtà contratti che possono essere interrotti da un momento all’altro» (Repubblica, 22-10). Con questo dualismo urge fare i conti: non esaltando un mondo a scapito dell’altro, ma conferendo dignità a chiunque lavori, stabilmente o precariamente, e senza cercare il calduccio nei bei tempi o valori che furono. Questi non tornano, ma la questione della dignità resta. Facendo l’elogio del passato Tremonti non solo proclama l’ovvio (lui stesso l’ammette: «Ho detto una cosa scontata: come che tra stare al caldo e stare al freddo, preferisco stare al caldo»). Enuncia banalità inutili perché irrealizzabili, ha scritto su questo giornale Federico Geremicca.

Ma non è solo una banalità. La frase di Tremonti occulta il vero ed è deleteria, beffarda. Attribuendo un’inimitabile virtù di stabilità al posto fisso, inoltre, fissa valori supremi che per forza declassano altri valori, facendone dei disvalori. Il posto precario che tanti giovani devono scegliere al posto dell’inattività è condannato e dannato, non consentendo di «organizzare progetti di vita e di famiglia». La preminenza data al posto fisso sfocia «nell’esclusione degli outsider, di quelli che il posto non lo hanno», e ai quali non si offre «una società aperta ma l’arroccamento degli insider», scrive l’economista Franco Bruni (La Stampa, 21-10). Essendo in fondo senza interesse, il lavoro instabile non ha interessi da far valere né rappresentanze da costruirsi. Disperazione e rimpianto sono la sua sorte. In Italia, a differenza della Francia, chi lavora nella precarietà non ha protezioni se si ammala, se aspetta un figlio. Non ha diritti concernenti ferie, licenziamenti, pensione. Dichiarare il posto fisso come «la base di una vita dignitosa» è un crudele memento per coloro cui si dice: tu questa base non puoi averla, anche se lavori, perché non sei parte del piccolo mondo antico. È nell’Inferno che Dante lo apprende: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria». Non è neanche vero che Tremonti difende l’esistente. Le sue parole feriscono perché illudono, fingendo un esistente che non c’è. Somigliano alle case vendute con delittuosi imbrogli a chi non ha soldi per comprarle: sono parole subprime.

Sono l’ennesima bolla, fatta di vento che presto si sgonfia.

Negare la realtà è perpetuare una pigrizia mentale che lusinga i privilegiati e lascia scoperti gli sfavoriti, trasformando questi ultimi (la maggioranza dei giovani) in perdenti. Che li contagia con l’indolenza, non svegliandoli a una nuova cultura del lavoro: una cultura egualmente calda, che dia stabilità all’attività lavorativa, quale che sia la sua forma. La sinistra ha una funzione essenziale nella formazione di questa cultura, perché tradizionalmente rappresenta i lavoratori, i miseri. Quando smette di farlo ­ quando nel contempo dimentica anche gli imperativi della moralità pubblica ­ il vuoto è stato sempre riempito da destre populiste.

La sinistra e i sindacati devono ricominciare la storia, anziché impigrirsi e riecheggiare astratti rimpianti: devono capire che la questione sociale si sta ripresentando impetuosa, ma con vesti diverse. Che siamo di fronte a un passaggio storico non dissimile da quello descritto da Luigi Einaudi nel 1897, quando gli scioperi colpirono l’industria tessile del Biellese. La nascita delle fabbriche nella prima metà dell’800 aveva suscitato bisogni nuovi, per chi aveva dolorosamente vissuto la fine del tessile lavorato in famiglia, col telaio a mano installato in casa. Aveva, proprio come dice Tremonti del lavoro instabile, distrutto progetti di vita e famiglie, tanto che Simone Weil sognava, ancora nel 1949, l’abolizione delle grandi fabbriche. Garantire protezioni al lavoro discontinuo oltre che al posto fisso è un compito grande e arduo per le sinistre. Non basta che il Pd cessi di essere un partito leggero e vada nelle fabbriche che chiudono, come suggerito da Epifani sul Fatto di venerdì. Non è solo in fabbrica che la sinistra ritroverà coloro che, pur lavorando, soffrono la perduta dignità, ma nelle professioni intellettuali, negli uffici, nella pubblica amministrazione, nella ricerca.

Diceva ancora Einaudi: «Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato a ogni istante di non durare (...). Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes» (Le lotte del lavoro, Einaudi 1972). Tremonti ha il merito di aver visto l’aggravarsi dello squilibrio. Da qui bisogna partire, perché esso susciti nuove rotte di pensiero, di azione. Perché gli anni eroici del movimento operaio siano la goccia del passato vivente che porteremo nel futuro.

19.10.09

L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica

Ancora una volta, riecco l’invocazione scaramantica: «Ci vorrebbe l’ora di…». Stavolta, quella nuova, da istituire subito nelle scuole pubbliche, sarebbe «l’ora di Islam». C’è qualcosa di drammati­co, ma anche di grotte­sco, nella parabola, vec­chia ormai di due secoli, delle funzioni che si so­gna di affidare alla «scuo­la di Stato». C’è, qui, un mito nato — come tanti — dagli schemi ideologi­ci di giacobini e girondi­ni.

Non lo scettico Voltaire ma il fervoroso Rousseau fu il maestro di quei signori: si nasce buoni, il peccato originale è una favola disastrosa, date ai fanciulli dei maestri acconci ed avrete il regno della bontà, dell’altruismo, del civismo. Sorgono difficoltà sempre nuove? Ma dov’è il problema?
Basterà inserire nella scuola pubblica delle apposite «ore di…» che educhino al bene e al buono i nuovi virgulti; e tutto sarà ripianato.

Da noi, il Cuore deamicisiano è l’icona caricaturale di questi nuovi templi di un’umanità plasmata dalla Ragione e strappata alla superstizione. Succede, però, che proprio nell’Occidente laicamente formato, abbiano trovato folle entusiaste le ideologie mortifere che hanno devastato i due secoli seguiti al trionfo delle utopie roussoiane. Ma poiché gli ideologi hanno per motto «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», il mito ha continuato ad agire. Il sesso fra gli adolescenti crea gravidanze incongrue e favorisce violenze? Si istituiscano nelle scuole «corsi di educazione sessuale». Alcol e droghe devastano i giovanissimi? Ecco gli esperti per gli appositi «corsi contro le dipendenze». C’è strage su moto e automobili? Subito «corsi di educazione stradale».

La convivenza sociale è sempre più turbolenta? Ecco dei bei «corsi di educazione civica».
Si potrebbe continuare, ma la realtà è chiara: a ogni problema, una risposta affidata alla scuola. Con il risultato, segnalato da pedagogisti ovviamente inascoltati, o di effetti irrilevanti o addirittura di aggravamento delle situazioni: il confuso istinto di ribellione dei giovani porta a sperimentare e a praticare ciò che è condannato nelle prediche degli adulti, soprattutto se insegnanti.
Trasgredire al professore dà tanto gusto come, un tempo, trasgredire al parroco.

E ora, tocca all’Islam, la cui presenza tra noi, ogni giorno in crescita, è tra gli eventi che meritano l’inflazionato aggettivo di «storico». Non siamo davanti a una immigrazione, ma a una di quelle migrazioni che si verificano una o due volte in un millennio. Per quanto importa, sono tra i convinti che, sulla lunga durata, l’Occidente si rivelerà per l’islamismo una trappola mortale. I nostri valori e, più ancora, i nostri vizi, corroderanno e, alla fine, faranno implodere una fede il cui Testo fondante non è per nulla in grado di affrontare la critica cui sono state sottoposte le Scritture ebraico-cristiane.

Una fede che, in 1400 anni, non è mai riuscita ad uscire durevolmente dalle zone attorno ai tropici, essendo una Legge nata per remote organizzazioni tribali. Una fede che, priva di clero e di un’organizzazione unitaria, impossibilitata a interpretare il Corano — da applicare sempre e solo alla lettera — è incapace di affrontare le sfide della modernità e deve rinserrarsi dietro le sue mura, tentando di esorcizzare la paura con l’aggressività. Ma poi: panini al prosciutto, vini e liquori, minigonne e bikini, promiscuità sessuale, pornografia, aborti liberi e gratuiti, «orgogli» omosessuali, persino la convivenza con cani e gatti, esseri impuri, e tutto ciò di cui è fatto il nostro mondo — nel bene e nel male — farà sì che chi si credeva conquistatore si ritroverà conquistato.

Ma questo, dicevo, in una prospettiva storica: per arrivarci passerà molto tempo e molti saranno i travagli, magari i drammi. Per adesso, che fare? Sorprende che, proprio da destra, si proponga lo pseudorimedio che è, da sempre, quello caro alle sinistre: nelle scuole «corsi di Islam», quello buono, quello politically correct . L’idea non ha né capo né coda.

Brevemente: poiché, a parte casi particolari, gli allievi islamici sono ancora pochi in ogni classe, bisognerebbe riunirli tutti assieme in una classe sola, almeno per quelle ore. Ed ecco pronta la madrassa, la scuola coranica, che esige che i credenti in Allah stiano unicamente con altri credenti. Stretti in comunità, a cura della nostra Repubblica, chi farà loro lezione? E che gli si insegnerà? Gli ingenui, o insipienti, promotori della proposta si cullano forse nel mito di un «Islam moderato», pensano che esistano schiere di intellettuali musulmani «laici, pluralisti, democratici», pronti ad affrontare concorsi per cattedre di Islam «corretto»?

Ignorano che incorrerebbe in una fatwa di morte il muslìm che presentasse la sua religione come una verità tra le altre? Non sanno che relativismo e neutralità religiosa sono frutti dell’illuminismo europeo, ma bestemmie per il credente coranico? Ignorano che l’anno islamico inizia da Maometto e che il tempo e il mondo sono solo del suo Allah? Non sanno che è impensabile il concetto stesso di «storia delle religioni» per chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere? I politici pensano, allora, di affidare le «ore di Islam» a non islamici, di far spiegare il Corano — in modo «laico e neutrale» — a chi non lo crede la Parola eterna e immutabile di Dio?

Fossi un assicuratore, mai stipulerei una polizza sulla vita per simili, improbabili, introvabili docenti. Se l’insegnamento nelle istituende «madrasse della Repubblica italiana» differisse anche di poco da quello delle moschee, l’esplosione di violenza sarebbe inevitabile. E, come troppo spesso è successo con i fautori delle «ore di…», le buone intenzioni produrrebbero frutti disastrosi.

Vittorio Messori

18.10.09

Telecom France, la battaglia dei suicidi

Barbara Spinelli

Venticinque persone che si suicidano alla Telecom francese in un anno e mezzo: è sconvolgente perché somiglia a un’ecatombe, a una guerra inconfessata. I profitti dell’azienda sono altissimi, la semi-privatizzazione del 2004 è stata un successo, ed ecco: l’operazione è riuscita, ma i morti sono tanti. Non siamo di fronte all’immolazione d’un capro espiatorio: il capro stesso tende il collo, si considera degno di olocausto. Un divario così grande fra utili dell’impresa e sofferenza umana riguarda la società, non semplicemente la psiche di individui che fanno harakiri, il più delle volte dimostrativamente nel posto di lavoro. Che non riescono a traversare indenni la nuova mobilità, i licenziamenti sempre incombenti, l’ansia che recide tranquillità e speranza, l’organizzazione del lavoro fondata sulla nuova cultura della valutazione, tutta protesa a cifrare come a scuola risultati, ritmi lavorativi, comportamenti psichici, su base quantitativa e mai qualitativa: «Una cultura di morte e per la morte», scrive Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera del 17 ottobre.

Strano come negli ultimi due-tre anni la morte volontaria abbia messo radici in una terra di rivoluzioni, di regicidi. Il fenomeno si è rivelato più tenace dei sequestri di manager. Oltre ai suicidi in Telecom vanno ricordati quelli al centro Guyancourt di Renault nel 2006-2009 (4 suicidi, l’ultimo in ottobre), nella fabbrica Peugeot-Citroën di Mulhouse (6 suicidi nel 2007), nel gruppo Electricité de France (3 suicidi in 6 mesi, nel 2007).

I dati parlano di 500 suicidi l’anno per lavoro, ma gli esperti sono convinti che il numero sia assai più alto.

A Telecom i sindacati sono presenti, altrove c’è deserto sindacale e la notizia s’insabbia.

Bisognerebbe fare una raccolta delle lettere che alcuni hanno lasciato, prima di uccidersi, come si fa con le lettere dei condannati a morte. Aiuterebbe molti a capire, a rettificare parole, certezze, a vedere un’emergenza sociale dietro le intimità di una psiche. Il lavoro occupa l’intera mente dei suicidi, e l’intera esistenza. Illuminante e terribile è la lettera di Michel D, il quadro dirigente che si è tolto la vita il 14 luglio scorso. È indirizzata ai familiari e a tutti i colleghi: «Mi uccido a causa del mio lavoro a France Telecom. È l'unico motivo. Urgenza permanente, sovraccarico di lavoro, assenza di formazione, disorganizzazione totale dell’azienda: questo mi ha completamente disorganizzato e perturbato. Sono diventato un relitto, meglio farla finita». E in un post scriptum: «So che molte persone diranno che esistono altre cause (sono solo, non sposato, senza bambini). Alcuni insinueranno che non accettavo d’invecchiare. Ma no, con tutto questo mi sono arrangiato abbastanza bene. L’unica causa è il lavoro».

I rapporti degli esperti (psichiatri, medici del lavoro, sociologi, mobilitati nell’ultimo anno) individuano nel lavoro l’epicentro del terremoto suicida. Jean-Claude Delgenes, fondatore della società Technologia che studia questi casi, elenca numerosi motivi ma su uno insiste, in particolare. Il male è nella parola, dice: nella parola che perisce prima della persona, cancellando ogni legame sociale. Il flusso dell’informazione si dissecca, e il singolo si sente solo, minacciato da declassamento, controllato da troppi occhi che «lo assillano moralmente e lo spingono a lasciare l’azienda per esaurimento». La Telecom è un caso speciale, perché per oltre mezzo secolo è stata un grande servizio pubblico: il 65% degli impiegati sono tuttora funzionari dello Stato. La maggior parte dei suicidi avviene tra loro e nelle classi alte: quadri e ingegneri di 48-50 anni, sconvolti dall’avvento di cellulari e internet.

L’assenza di parola è malefica, quando non circola più e si allontana come un Dio dichiarato morto: non viene data a chi forse si salverebbe parlando, non viene ascoltata quando stentatamente è detta dal sofferente, non è scambiata tra colleghi. Qui è il crimine, e tutti sono responsabili di un’afasia proliferante e contagiosa: i manager ma anche i sindacati, i politici che non illustrano i costi della crisi e i mezzi di comunicazione. Un mondo sta finendo - il lavoro fisso, il sindacato forte che arginava le disperazioni - e l’enorme mutazione è occultata, sottovalutata.

Ivan du Roy, giornalista a Témoignage chrétien e autore di un libro sui suicidi a Telecom, ricorda che non fu diverso l’affare dell'amianto: ci vollero decenni per riconoscere che i tumori nascevano in fabbrica. Lo stesso accadrà per il nesso lavoro-suicidio (Du Roy, Orange stressé: Le management par le stress à France Telecom, Parigi 2009). Gli amministratori della compagnia hanno esitato a lungo, prima di ammettere che qualcosa non andava, a cominciare dai vocabolari. Il management attraverso la paura, denunciato da Michel D, è qualcosa che non vogliono afferrare. Per mesi, il presidente Lombard ha parlato di «moda dei suicidi».

Questo linguaggio sprezzante è mortifero, soprattutto in un’azienda che è stata servizio pubblico dove il lavoro significava fierezza, prestigio. È un linguaggio sfrontato nato dal fondamentalismo anti-statalista. Mette in luce gli ingiusti privilegi di certi lavoratori ma fa loro mancare quello che più li motiva e li aiuta: il riconoscimento, la stima di sé. La parola d’ordine è, in Francia: Il faut secouer le cocotier - bisogna scuotere l’albero di cocco. Un’espressione perfida che richiama l’usanza, osservata in alcune etnie polinesiane nell’800, di eliminare fisicamente i vecchi quando non erano più capaci di arrampicarsi sugli alberi e raccogliere il cocco. Usato oggi, il termine significa: bisogna eliminare gli improduttivi. In Italia un ministro usa vocaboli simili (fannulloni, parassiti) senza sapere che la storia di certe parole è tragica, proprio quando esse diventano popolarissime.

I sindacati sono specialmente in causa, perché spetta a loro incanalare le ribellioni, educare al nuovo, e dare ai lavoratori non illusioni ma verità. Il suicidio smaschera la loro inconsistenza, essendo una rivolta strozzata subito. Il ribelle, lo dice l'etimologia, ricomincia sempre la guerra (re-bellum). Il suo linguaggio (militanza, mobilitazione) è militare. Il suicida grida, muto, che la guerra è finita: è infinitamente stanco di storia. Come l’Amleto europeo che Valéry descrive dopo il 14-18, «pensa alla noia di ricominciare il passato, alla follia di voler sempre innovare. Barcolla fra due baratri, perché due pericoli incessantemente minacciano il mondo: l’ordine e il disordine».

Non è vero che troppa informazione è deleteria, come dicono molti governanti. La maggior parte dei suicidi lamentano di non esser mai informati, su crisi e ristrutturazioni: né dai manager, né dai sindacati, né dai politici. Sentono solo parole offensive nei loro confronti. Sentono «un’agitazione permanente chiamata pomposamente innovazione», scrivono il 28 settembre i firmatari di una lettera aperta al presidente Telecom. Invitati ossessivamente a pensare positivo, nulla li prepara psicologicamente a tempi duri, al lavoro che ridiventa necessità e pena.

Non meno responsabile è la professione giornalistica. Da tempo ormai le pagine economiche dei giornali sono monopolizzate da articoli su imprese, finanza. I servizi sul lavoro sono pressoché scomparsi. Il capo della Confindustria si esibisce quasi fosse un ministro, pur essendo rappresentante di un sindacato come altri. Lo studioso Michael Massing scrive che la stampa Usa non si occupa praticamente più dei problemi sociali (New York Review of Books, 1-12-05). Il New York Times ha 60 reporter che seguono il business, e uno che segue il lavoro.

Il respiro breve, il tempo corto: sono mali che non affliggono solo la finanza ma anche il lavoro. Tutto deve esser ottenuto subito. Chi regna è il cliente: una giusta rivalutazione del consumatore, che rischia tuttavia di ributtare il produttore nel nulla («Je suis nul - Sono nullo, sarò licenziato», dice un altro suicida nell'ultima lettera). Tutto questo è moderno e tragico al tempo stesso. Sfocia in un brave new world dove mai sfuggi al sorvegliante. Dove ti ordinano di pensare positivo, e se pensi negativo ti eliminano come i vecchi che non sanno più inerpicarsi sull’albero di cocco.

13.10.09

La Dolce Berlusconi (The Washington Post)

Silvio Berlusconi has been accused of bribery, tax evasion, corruption and subversion of the press. His wife has left him on the grounds that he consorts with prostitutes and holds orgies at his villa in Sardinia. He makes embarrassing jokes (and then repeats them, as he did with the one about President Obama's "suntan") and periodically disappears to undergo more plastic surgery. He is at war with the Italian legal establishment, with almost all of the journalists who don't work for him, and with the Catholic Church. Last week the Italian constitutional court lifted his immunity from prosecution, which means Italians can look forward to a whole new series of lawsuits and scandals.

Yet by far the most interesting thing about the Italian prime minister is this: Italians keep voting for him. The somewhat ragged coalition he leads -- Il Popolo della Libertà, the People of Freedom -- won a decisive general election victory in 2008 and trounced the opposition in European parliamentary elections in June 2009. Whether or not you agree with his daughter, who says he "will go down in the history books as the longest-serving and most loved leader in the history of the Italian republic," you cannot argue with the fact that he has been the dominant force in Italian politics since he first became prime minister in 1994. But why?

There seem to be several answers, some of which are connected to the weird impasse that brought him to power in the first place. In the early 1990s, Italy's political system unraveled following a series of judicial investigations that revealed profound corruption permeating the entire Italian political class. As a result, all of the major political parties and all of the leading political figures vanished overnight, sometimes literally: Bettino Craxi, leader of the Italian socialist party for nearly 20 years, fled to Tunisia to escape prison and eventually died in exile.

Berlusconi stepped into the vacuum, promising to talk about issues no one else had dared touch -- notably mass immigration from North Africa -- and to deal with problems no one else could solve, including the convoluted tax laws and notorious bureaucracy. But in retrospect it is clear that Berlusconi (whose record on actually carrying out any of his reforms is pretty slim) has also brought the counterrevolution: He had made his career under the old system -- as had many other people -- and, once in power, he brought an end to the judicial purge. Italians, journalist Beppe Severgnini told me, "were afraid of their own bravery." They were also afraid of chaos, and in a country that has had, on average, a different government every year for the past six decades, Berlusconi, a familiar figure for many years, has come to represent a kind of stability. The Italian left is disorganized, the center-right is paralyzed, and a lot of people prefer the devil they know.
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Of course, Berlusconi also has at least one tool that none of the others have: popular television. He controls three mainstream channels and various digital channels because he owns them. He also in effect controls state television because he is the prime minister. There are newspapers, magazines and late-night talk shows that criticize him, but they don't reach the same numbers of people: Much like his friend Vladimir Putin, the Russian prime minister, he doesn't try to exert influence over all of the media, just the media that reach most of the voters.

That may not determine the outcome of elections, but it sure helps. It has also made Italy the center of the largest movement for press freedom outside the former Soviet Union.

But in the end, even that dominance can't explain all of his votes. There has to be something appealing about Berlusconi himself as well. Severgnini has called him a "mirror" of modern Italy, and one sees what he means: Nouveau riche (like almost everyone in the country) and not afraid to show it off (remember that Sardinian villa); a lover of women and soccer (he owns the team A.C. Milan); loyal to his friends (even protecting them from the law); and clearly enjoying himself at those parties and on his yacht, Berlusconi leads a kind of caricature version of the ideal Italian life. And precisely because he is a caricature, he gets away with things that other people can't. One hears Italians regale one another with Berlusconi stories and then howl with laughter.

Besides, with Berlusconi as your prime minister, you don't have to take yourself too seriously. You don't have to trouble yourself with geopolitics or the state of the planet, or poverty and failed states. You can stay at home, remain unserious and argue about the latest legal scandal. And maybe that, too, is part of the Italian prime minister's appeal.

applebaumletters@washpost.com

Caro Silvio, fai come De Gaulle

di MARIO GIORDANO
Come De Gaulle. A questo punto il premier Berlusconi dovrebbe fare proprio così, come "mon generar: una riforma, costituzionale, con elezione diretta del presidente della, Repubblica, da sottoporre direttamente a referendum popolare. Dal discorso di Bayeux al discorso di Arcore: le analogie sono tante. In fondo anche De Gaulle aveva dato molto al suo Paese, ricevendone in cambio ingiuste critiche e accuse. Anche lui riusciva a farsi capire dal popolo assai più che dai giornali e dall'alta borghesia. Che fece allora? Varò la riforma, e la sottopose a referendum. Vinse con l'83 per cento dei voti. Autoritarismo? Decisionismo? Colpo di mano? Macché: guardate la Francia e sorridete. De Gaulle salvò la, democrazia.
C'era il caos, nacque la Quinta Repubblica. Ora noi non pretendiamo tanto: ci accontenteremmo della Terza. La nostra prima Repubblica l'hanno affossata i partiti, la seconda la sta affossando il gorgo istituzionale. La terza chissà, forse andrà, meglio. Del resto non è mica possibile? Il mondo cambia e noi siamo ancora, qui con mille deputati, il bicameralismo perfetto, le decisioni politiche della Corte Costituzionale, la casta, dei giudici che se ne impipa, della volontà popolare. Non sappiamo se sia vero o no, come si dice e si scrive, che sul tavolo del premier galleggi la voglia di una riforma forte. Ma di sicuro quella voglia galleggia per il Paese. È evidente. Che altro bisogna aspettare per cambiare? L'arrivo degli Ufo? Il Torino che vince la Champion's League? Di Pietro che azzecca un congiuntivo?
Il presidenzialismo, fra l'altro, risolverebbe molti problemi. Darebbe finalmente poteri veri al capo dell'esecutivo (non si lamenta sempre Berlusconi che il presidente del Consiglio non può decidere nulla? Che al massimo può fare moral suasion con i ministri?). E scioglierebbe in modo definitivo quei conflitti che da almeno 15 anni avvelenano la vita politica italiana, fra scontri istituzionali e arbitri che anziché fare gli arbitri, scendono in campo e giocano indebite partite. Ieri, per esempio, il presidente Napolitano, nel negare l'esistenza di un patto sul lodo Alfano, ha parlato di una «prassi di semplice consultazione e leale cooperazione» nella stesura dei disegni di legge. Strano, no? In quale articolo della Costituzione è previsto che il Capo dello Stato "cooperi" alla stesura, delle leggi? Dove è prevista, prima dell'approvazione delle Camera, la "consultazione" del Quirinale?
Che ci volete fare? Di questi tempi scopriamo di avere in materia di diritto pubblico più lacune di quelle D'Alema ha in materia di simpatia. Dopo aver scoperto che la sovranità popolare è un optional un po' demodé, adesso veniamo a scoprire l'esistenza della "cooperazione legislativa" del capo dello Stato. E del resto quello che "coopera" non è lo stesso presidente Napolitano che, con procedura piuttosto irrituale, ai tempi del caso Englaro, scriveva lettere al Consiglio dei ministri (mentre il Consiglio dei ministri era in corso), per suggerire che cosa il governo dovesse decidere? Un po' bizzarro, non vi pare? È come se, prima dell'inizio di una partita di calcio, l'arbitro mandasse un messaggio all'allenatore di una squadra: guarda, che se fai giocare quel centravanti, appena entra in campo lo espello...
Troppe stranezze, troppe lentezze, troppi ingorghi. Urge fare chiarezza. E quale strada, migliore, per fare chiarezza, che una limpida riforma costituzionale approvata da referendum popolare? In fondo di revisionare la Carta si parla da anni. La prima commissione parlamentare per la riforma fu istituita nel 1982 (la commissione Bozzi) e raccolse decine di proposte che già erano state avanzate negli anni precedenti, segno evidente che la necessità di mettere mano a qualche norma si sentiva fin da allora, quando pure la Costituzione era una giovinetta e non l'anziana signora di oggi. E la sinistra non era forse d'accordo sulla necessità di cambiare quando a metà degli anni Novanta mise D'Alema a presiedere la Bicamerale? E Fini non è sempre stato un grande sostenitore del presidenzialismo? E allora chi potrebbe gridare allo scandalo di fronte a una proposta di riforma costituzionale approvata dalla maggioranza del Paese?
Del resto, quando la situazione sembra incagliarsi, Berlusconi ha sempre avuto la capacità di risolvere le situazioni con salti in avanti, colpi di genio, gesti coraggiosi. Fu così nel 1994 quando fondò Forza Italia, è stato così nel 2007 quando fondò il partito unico dal predellino di San Babila. Ora è di nuovo uno di quei momenti critici e dunque topici. Al di là degli indiscutibili risultati di governo, e per ragioni che abbiamo più volte sviscerato, il Paese sembra sul rischio di impantanarsi in un estenuante e distruttiva guerra di posizione. Una guerra, che conviene solo a chi vuole il male generale. Gli italiani hanno fiducia nel centrodestra e chiedono cambiamento. Lo chiedono in fretta. E dunque non c'è più tempo da aspettare. Bisogna agire, bisogna fare come De Gaulle. «Ho contro di me i borghesi e i diplomatici, e dalla mia parte solo le persone che prendono la metrò», diceva, il Generale. Ma è con le persone che prendono la metrò che si riesce a cambiare un Paese. E a salvarlo dai borghesi e dai diplomatici. E forse anche dai giornali.

10.10.09

Nelle offese a Rosy Bindi la"filosofia dell'utilizzatore"

Stupisce il silenzio delle donne dei partiti di governo
che accettano la logica sessista degli uomini del Pdl

di CHIARA SARACENO

Il premier che "adora le donne", come ha graziosamente risposto al giornalista spagnolo che lo interrogava sulle sue frequentazioni, perde non solo le staffe, ma ogni senso della buona educazione e del limite appena una donna, una sua collega parlamentare e vicepresidente della camera, si permette di criticarlo. Nella cultura da caserma in cui sembra trovarsi a suo agio quando tratta di donne e con le donne, non gli basta insultarla genericamente come comunista mangiabambini, come fa di consueto con gli oppositori del suo stesso sesso.

Non può trattenersi dall'appoggiare il suo disprezzo ad un giudizio estetico. Confermando che per lui - per altro brutto, tinto e rifatto, oltre che piuttosto anziano - le donne si dividono in due categorie: quelle (per lui) guardabili e potenzialmente utilizzabili (se non già utilizzate), la cui intelligenza è eventualmente un optional e comunque non deve velarne il giudizio obbligatoriamente positivo nei suoi confronti, e tutte le altre. Le non convenzionalmente belle e le anziane sono accettabili solo se adoranti. Altrimenti cadono sotto la mannaia del giudizio di non esistenza.

Il leghista Castelli ha offerto un'altra variante della stessa cultura da caserma, scegliendo un altro topos classico, quello della zitella. Come se, tra l'altro, una donna senza un uomo fosse automaticamente una donna non voluta, non desiderata e non una che ha scelto di non avere un compagno (saggiamente, verrebbe da dire, se questi fossero gli unici tipi di maschi disponibili sul mercato). Per i leghisti, apparentemente, le donne non devono coprirsi il volto e il capo per motivi religiosi, ma vale sempre l'esortazione del Veneto profondo, secondo cui la donna "Che la tosa la tasa, che la piasa, che la staga a casa" - un atteggiamento non molto distante da quello degli uomini tradizionalisti mussulmani da cui gli orgogliosi leghisti nordici si sentono tanto diversi.

Con prontezza, Rosy Bindi ha reagito all'insulto osservando che ovviamente lei non appartiene alla categoria delle disponibili e utilizzabili . Ma è stata la sola a reagire alla maleducazione di Berlusconi e Castelli. Nonostante qualche faccia imbarazzata, nessuno dei maschi presenti, incluso il conduttore, ha ritenuto doveroso prendere le distanze da questo tipo di linguaggio e comportamento gravemente sessista, che rende difficile partecipare alla comunicazione pubblica le poche donne cui, raramente, si concede la parola (Bindi era la sola donna l'altra sera a Porta a Porta, in un folto parterre di uomini).

Nessuno dei molti brutti, sfatti e rifatti uomini più o meno anziani che popolano la politica italiana deve temere di essere insultato e delegittimato per questo dai propri interlocutori, per quanto aggressivi. Il silenzio - complice, imbarazzato o codardo - degli uomini sia alleati a Berlusconi che all'opposizione, sia in politica che nei media è una questione politicamente seria che andrebbe affrontata, perché segnala quanto siano profonde le radici culturali del sessismo nel nostro paese. Non dimentichiamo che in Spagna Zapatero è stato attaccato dalla stampa per aver assistito in silenzio allo show in cui Berlusconi ha spiegato come intende le norme di ospitalità quando si trova di fronte una bella donna potenzialmente disponibile.

Ma c'è anche un altro silenzio che disturba: quello delle donne dei partiti di governo, a cominciare dalle ministre. Le loro voci si sono levate solo quando il capo le ha chiamate all'appello perché lo difendessero allorché scoppiarono gli scandali a catena: dalle candidature promesse alle veline a Noemi ai festini di Villa Certosa. Mai nessuna presa di distanza dalla immagine di donna - e di loro come politiche e come ministre - che emerge dalle appassionate autodifese del loro capo.

Particolarmente silente è la ministra delle Pari opportunità, che pure dovrebbe parlare per dovere istituzionale. Qualsiasi siano i motivi per cui è finita lì, cerchi di ricordarsi per favore che le pari opportunità non sono un concorso di bellezza. E che non si può lasciare a dei vecchi mandrilli, per quanto ricchi e potenti, il potere di parola e di giudizio su ciò che sono, sanno e possono fare e dire le donne, a prescindere dall'età e dai canoni estetici. Lasciare insultare una collega, anche della opposizione, con argomenti che nulla hanno a che fare con la politica, ma solo con il sessismo, è un errore grave, di cui paghiamo il prezzo tutte.

6.10.09

La campagna anti-Obama che avvelena l'America

PAUL KRUGMAN
La settimana scorsa si è verificato quello che il presidente Barack Obama ama definire un episodio istruttivo: è accaduto quando il Cio ha respinto la candidatura di Chicago alle Olimpiadi del 2016. Secondo quanto postato un redattore del settimanale conservatore WeeklyStandard, nella loro sede centrale «sono esplosi gli applausi» tra le grida di «Obama ha perso! Obama ha perso!». Rush Limbaugh si è detto «contento». Drudge Report ha commentato: Il mondo dice no a Obama». E così via.
Che cosa abbiamo imparato da questo episodio? Tanto per cominciare che il movimento conservatore di oggi, che domina il Partito Repubblicano, ha la maturità emotiva di un marmocchio di 13 anni. Più importante è la verità di fondo della situazione nella quale versa la politica americana che questo episodio mette in luce: ormai il principio ispiratore di uno dei nostri due partiti principali è la ripicca, pura e semplice. Se i repubblicani sospettano che qualcosa possa essere vantaggioso per il presidente, automaticamente vi si oppongono, a prescindere che si tratti o meno di qualcosa di vantaggioso per l'America.
Certo, festeggiare la bocciatura della candidatura americana è stato puerile, ma non ha arrecato danni reali. Il fatto è, però, che questo stesso principio della ripicca ha influito molto sulle scelte repubblicane in occasione di problematiche ben più serie, con conseguenze gravi, in particolare sulla riforma sanitaria.
È comprensibile che molti repubblicani vogliano contrastare i progetti democratici per estendere la copertura assicurativa. Ma nel 2005, quando i democratici fecero campagna contro la privatizzazione del Social Security, le loro tesi erano coerenti con la loro ideologia di fondo. Affermarono che sostituire benefit garantiti con conti privati avrebbe esposto i pensionati a un rischio troppo grande. Al contrario, la campagna dei repubblicani contro la riforma di Obama ha dimostrato di non essere molto coerente. La principale linea d'attacco del Gop si basa sul presupposto —che a sua volta si regge su menzogne di vario tipo sulle cosiddette "commissioni per l'eutanasia" e così via— che la riforma nuocerà a Medicare. Questa posizione è indiscutibilmente in contrasto con le tradizioni del partito e con ciò in cui i conservatori dicono di credere.
Si pensi, per esempio a quanto bislacco sia per i repubblicani porsi a difensori indomiti della spesa senza limiti di Medicare. Prima di ogni altra cosa, il moderno Gop si considera il partito di Ronald Reagan, che fu uno strenuo oppositore della creazione di Medicare al punto da lanciare il monito che avrebbe fatto a pezzi la libertà americana. (Vero).
Il piano dell'amministrazione Obama fa affidamento in parte proprio sui risparmi di Medicare, ma tenuto conto che il Gop si oppone a qualsiasi cosa possa essere vantaggiosa per Obama, ormai è diventato l'appassionato difensore di procedure mediche inefficienti e di pagamenti eccessivi alle assicurazioni.
Come ha potuto uno dei nostri più importanti partiti politici diventare così implacabile, così bendisposto ad abbracciare tattiche da terra bruciata, anche se così facendo compromette la capacità di qualsiasi futura amministrazione di governare? Il punto fondamentale è che dagli anni di Reagan a oggi il partito repubblicano è sempre più dominato dai radicali, ideologi e apparatchik che in sostanza non accettano il diritto degli altri a governare.
Chiunque si stia sorprendendo per l'opposizione velenosa e incontrollata contro Obama deve aver già dimenticato gli anni dell'Amministrazione Clinton. Ricordate quando Rush Limbaugh ipotizzò che Hillary Clinton sarebbe stata in grado di uccidere? Per non parlare dell'epopea dell'impeachment...
L'unica differenza è che adesso il Gop è in una posizione più debole, avendo perduto non soltanto il controllo del Congresso ma, in nuova misura, anche dei termini del dibattito. L'opinione pubblica non si beve più a occhi chiusi l'ideologia dei conservatori come era solita fare; i vecchi attacchi contro lo Stato Interventista e Forte e i peana per le meraviglie del marketplace hanno perso peso. Malgrado tutto, però, i conservatori continuano a ritenere che dovrebbero governare loro, e soltanto loro.
Ciò a cui siamo approdati è un approccio cinico, da “il-fine-giustifica- i-mezzi”. Tutto ciò che conta è accelerare la venuta di quel giorno in cui il partito legittimato a governare ritornerà al potere, e di conseguenza il Gop non si lascerà sfuggire nessuna occasione per dare batoste all'attuale amministrazione.
È un clima davvero brutto, ma è la realtà. Ed è una realtà che deve essere ben compresa da chiunque stia cercando di trovare una soluzione per i problemi concreti che affliggono l'America.

La Repubblica - c.2009, The New York Times - Traduzione di Anna Bissanti

5.10.09

Il grande sacco dell'Italia

Barbara Spinelli

Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l'Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.

E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.

Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.

Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.

È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.

Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po' come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del '500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.

L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.

Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D'un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c'è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.

4.10.09

La stampa in crisi

di Daniela Daniele

«Quel che la rete non potrà cancellare è il ruolo dei giornali di opinione che continuano a svolgere la funzione un tempo assolta dai caffé, dove si fissavano gli standard del discorso pubblico»: un incontro con Victor S. Navasky, editorialista del «New York Times» e direttore emerito di «The Nation». «Non idealizzo i reporter sul campo, la cui obiettività - dice - è spesso compromessa da un pesante bagaglio ideologico»
Inaugurata da Truman Capote come pratica anomala di scrittura sospesa tra fatto e finzione, la nonfiction è un genere anfibio e da tempo uno strumento essenziale nelle mani dei romanzieri contemporanei (da Mailer a Doctorow, da Pynchon a Coover, da Joan Didion a DeLillo) per aggirare le censure e illuminare con strumenti fittizi gli enigmi irrisolti della storia. Se ne è parlato in una serie di incontri curati dal critico culturale del New Yorker Lawrence Weschler, a Villa La Pietra, divenuta sede della New York University, sulla via Bolognese che porta da Firenze a Fiesole. Tra i protagonisti, lo scrittore americano E. L. Doctorow, che ha guidato un vivace dibattito sulla scrittura nell'era del monopolio dell'editoria e di Internet. A proposito dell'eccesso di informazioni che circolano fuori e dentro la rete, il suo nuovo romanzo - Homer and Langley, edito da Random House - racconta la vera storia dei proverbiali fratelli Collyer che morirono letteralmente sommersi da cumuli di carta stampata, in una casa di Harlem, trasformata in discarica al coperto.
I tunnel di carta in cui i vigili li rinvennero cadaveri richiamano allegoricamente una sindrome sempre più diffusa tra i navigatori della rete: la «disposofobia digitale», quel disturbo compulsivo che impedisce di disfarsi della massa di dati a nostra disposizione, con l'illusione che le illimitate capacità di immagazzinamento del computer possano garantire il controllo della conoscenza e dell'informazione. Tant'è vero che, nel romanzo di Doctorow, il sogno di uno dei due fratelli di Harlem è proprio quello di trarre da quell'ammasso di giornali un reportage definitivo, il distillato del «quotidiano universale», capace di resistere a ogni ulteriore aggiornamento.
Doctorow ha chiamato a discutere della crisi della carta stampata nell'era di Internet un protagonista dell'editoria internazionale, Victor S. Navasky, editorialista del New York Times e dal 1978 direttore e attualmente editore emerito della gloriosa rivista «The Nation», fondata alla fine della guerra civile da un gruppo di abolizionisti che guidarono la ricostruzione a partire da un acceso dibattito tre le migliori menti progressiste e radicali d'America. Da quel lontano 1865, a detta di Navasky, «The Nation» non ha mai cambiato linea, e sta in questo il segreto di tanta longevità: il giornale, infatti, non ha mai rinunciato alla sua indipendenza editoriale né a rispettare le richieste di aggiornamento da parte dei lettori sui temi dell'istruzione e della sanità, temi che in tempi di crisi sono diventati negletti. La forza di «The Nation», conferma Navasky, sta nel fatto di essere rimasta, come alle origini, un giornale di opinione. Le crisi finanziarie non sono mancate: negli anni Trenta, si dovette cedere la proprietà a un magnate di Wall Street, che però fu costretto a firmare la liberatoria con cui rinunciava al controllo editoriale. Infatti si ritrovò a presto a dovere sottoscrivere contenuti apertamente critici sul suo operato, che alla lunga lo convinsero a rinunciare alla proprietà.
Il celebre giornalista statunitense A. J. Liebling scriveva che la libertà di stampa viene garantita solo da chi la stampa la possiede ma, in un sistema di comunicazione basato sul profitto, il monopolio dell'informazione non è mai totale. Ad eccezione del caso Watergate, tuttavia, che rimane un grande modello isolato, se pensiamo al periodo maccartista, o a quello dei samistadt russi, il giornalismo indipendente ha sempre dovuto affrontare il problema della scarsezza di fondi e della censura, rilanciando, soprattutto nei momenti più critici, il ruolo del giornale d'opinione che, con pochi capitali, può mantenere un forte impatto. Sentiamo cosa ha da dirci Victor S. Navasky.
A sostegno della rivista «The Nation» sono state ideate iniziative di «intrattenimento critico», come per esempio una crociera con i lettori, che ha destato però, molte polemiche. Certo, ci si domanda sempre più allarmati, come fa la stampa indipendente a garantirsi i mezzi con cui lavorare?
L'idea della crociera è solo una delle numerose iniziative di autofinanziamento che abbiamo ideato, perché organizziamo, per esempio, anche molti incontri a New York e in giro per il paese per cui chiediamo un biglietto di sottoscrizione. Comunque, la crociera ha permesso a molti lettori di andare in vacanza con alcuni tra i nostri maggiori autori, i quali hanno accettato di parlare a bordo senza essere pagati. C'è stato chi ci ha accusato di aver scelto una forma di viaggio troppo esclusiva per i mezzi a disposizione dei nostri lettori, e c'è chi - come Barbara Heinrich, una giornalista molto amata negli Stati Uniti che divide il suo impegno tra stampa radicale e quella più liberal come la nostra - si è rifiutata di venire a parlare su una nave di proprietà di una multinazionale. Allora le abbiamo proposto di raggiungerci in aereo a una delle tappe del viaggio (senza ricordarle che anche gli aerei appartengono alle multinazionali), ma non è bastato perché alla fine si è data malata. Per protestare contro la sua assenza molti passeggeri sono entrati in sciopero, dando vita a una serie di incontri alternativi che ci hanno fatto capire come l'area radicale dei nostri lettori rimanga cruciale per mantenere vivo il dibattito anche tra i progressisti liberali: proprio com'era nei propositi originari della rivista.
Qual è la sua opinione sulle modifiche che la scrittura ha subito dopo la rivoluzione elettronica? Le sembra che il progressivo scadimento della sua qualità sia inesorabile?
Non condivido la demonizzazione delle nuove tecniche di comunicazione né credo si debba idealizzare il passato. Anche Doctorow ha notato che si potrà parlare di morte della scrittura solo il giorno in cui saremo costretti a leggere un testo disposto su un'unica colonna, diversamente da quanto accade ora che i giornali - ma era già così nel XIX secolo - organizzano le loro pagine per colonne contigue, che scorrono l'una accanto all'altra, quasi a presupporre una lettura simultanea e parallela. La rete è un ricettacolo di dati che non cancella, soprattutto, il ruolo dei giornali di opinione che, come ha scritto Jürgen Habermas nel 1965, continuano a svolgere la funzione pubblica che un tempo avevano i caffé, dove si fissavano gli standard del discorso pubblico. D'altronde, le riviste cartacee sono ancora tra le poche a garantire un'eleganza, una coerenza e una cura editoriale che mancano all'informazione in rete, per non parlare della maggiore accuratezza nel verificare le notizie, laddove il sapere in versione wikipedia è soggetto a costanti rettifiche e rimaneggiamenti. Si dà sempre per scontato che i giovani passino il loro tempo in rete e non leggano libri, eppure al George T. Delacorte Center for Magazine Journalism, che dirigo alla Columbia University, sono moltisimi gli studenti che chiedono di specializzarsi nella stampa periodica, sperimentando forme narrative e investigative di giornalismo fondate sull'interpretazione delle notizie più che sulle notizie in sé, per le quali basta avere un televisore e un I-Phone.
Doctorow nel suo ultimo romanzo parla del fatto che sotto la spinta della comunicazione elettronica assistiamo non solo a un inevitabile degrado della parola scritta ma a forme parossistiche di condensazione delle parole. Che gliene pare di questa prospettiva?
Nel breve periodo temo che sia realistica, ma con il tempo le diverse modalità di scrittura finiranno per integrarsi e ad arricchire il quadro dell'informazione. D'altro canto, la carta stampata non solo continua misteriosamente ad avere una forte presa sui lettori, ma sta imparando a sfruttare le sollecitazioni provenienti da quel «giornalismo civico» di cui parla Jay Rosen, cioè dal lavoro di anonimi che, sostituendosi ai reporter di professione e grazie a una diffusa dimestichezza con le tecniche di ripresa, hanno messo in rete, per esempio, i discorsi di Obama, incidendo in maniera decisiva sulla sua elezione. È vero che esempi come questo testimoniano della migrazione di certe notizie o spazi pubblicitari dalla versione cartacea alle pagine on-line, ma ciò non deve portare a temere gli effetti distruttivi delle tecnologie. D'altronde, così come dopo l'invenzione del cinema il teatro ha continuato ad esistere, ai nostri giorni, in piena esplosione dell'editoria elettronica, il libro rimane il mezzo più comodo per leggere. Piuttosto, oggi sentiamo il bisogno di diverse tipologie di giornalisti, o forse di giornalisti capaci di svolgere funzioni multiple: al tempo stesso devono fare circolare gratuitamente sui blog informazioni che non possono attendere i tempi di verifica dei giornali ma devono anche essere capaci di scrivere quegli articoli di approfondimento che assicurano il senso della carta stampata.
Sono anni, ormai, che si discute sull'impatto visivo delle nuove forme di comunicazione, facendo passare l'idea che l'immagine da sola può assumere un valore probante nella verifica dei fatti, a dispetto delle manipolazioni che le stesse tecnologie elettroniche rendono possibili. Lei cosa ne pensa?
Il rapporto con l'immagine è essenziale in questa fase della comunicazione: basti pensare a come, sul piano giornalistico, le foto di Abu Ghraib abbiano prodotto politicamente più effetti di tante discussioni. Anche la vignetta sta assumendo un ruolo politicamente più incisivo, essendo un'arte del grottesco d'impatto visivo immediato che sa ferire più di quanto non si pensi. Sull'esempio olandese dei caricaturisti che con le loro raffigurazioni di Maometto hanno sfidato una cultura iconoclasta come quella islamica, credo che oggi non ci sia un giornalista più temuto del vignettista. È lui che riesce ad aggirare la censura, facendo leva su stereotipi che toccano le viscere più di quanto non investano la ragione. Penso alla caricatura di Lincoln in versione gay, che suscitò l'indignazione della sinistra radicale o quelle di Michelle Obama criticate dalle femministe durante la campagna elettorale, esempi che fanno emergere un represso capace di smascherare anche certe chiusure e tabù della sinistra. Il vignettista si trova sotto un fuoco incrociato del potere e della correttezza politica, che non brilla mai per senso dell'umorismo, e contribuisce a consolidare il clima di moralismo fondamentalista in cui viviamo.
Non pensa che la credibilità della scrittura giornalistica oggi passi anche per la necessità di possedere un certo talento letterario e per la capacità di trovare uno stile riconoscibile?
Certo, a suo tempo Truman Capote ha avuto la capacità di decostruire miti e valori radicati dell'establishment, facendosi forte di una scrittura elegante, e Norman Mailer ha continuato su questa linea con Il canto del boia e Le armate della notte. Ma non solo il giornalismo letterario possiede quella forza, le strade della grande scrittura giornalistica sono molte. Abbandoniamo per un momento il giornalismo di opinione, che mantiene l'agio dei tempi dell'approfondimento e si dà modo di verificare i fatti e passiamo a quel genere di reportage che si svolge, per esempio, sui luoghi di guerra: com'è cambiato, secondo lei lo statuto delle notizie?
Non intendo idealizzare il reporter sul campo, che spesso arriva con un pesante bagaglio ideologico e dunque nessuna garanzia di obiettività. Nelle zone a rischio, abbiamo bisogno tanto di giornalisti chiusi negli alberghi che controllano le fonti governative come di persone che, per scelta, sfidano il rischio e si avventurano a indagare di persona. Così come non esiste un'unica verità, non c'è solo un giornalismo fondato sui meri fatti. E, d'altra parte, non credo che solo il «new journalism« sia in grado di filtrare notizie che non siano false.