29.9.09

Il canone spuntato

Massimo Gramellini

Molti lettori mi chiedono di aderire alla campagna del Giornale contro il canone Rai. Vittorio Feltri ha ragione, sostengono, non se ne può più di sovvenzionare col nostro denaro «Porta a Porta» e il Tg1. A dire il vero certe battute me le sarei aspettate dall’opposizione, se solo fosse guidata da esseri viventi. Invece da lì sono uscite le consuete lamentazioni ispirate al politicamente corretto: vergogna, evasori, giù le mani dal servizio pubblico. Ma siamo sicuri che per la buona tv sarebbe così terribile se il canone si trasformasse da tassa di possesso a tassa d’uso e ognuno di noi finanziasse soltanto i programmi che intende guardare? Una pay-per-view a prezzi popolari. Adesso io pago il balzello in un colpo solo, poi me ne dimentico e per un anno intero mi sorbisco le peggio sconcezze con l’atteggiamento tollerante di chi sta ricevendo qualcosa gratis. Immaginiamo invece che ogni trasmissione mi costi, anche solo cinque centesimi. Sarei curioso di vedere quanti di noi li investirebbero ancora in certi spettacoli della mutua. La nevrosi dello zapping subirebbe una contrazione salutare. L’indice di ascolto coinciderebbe finalmente con quello di gradimento. E la pubblicità sarebbe obbligata a diventare adulta, rivolgendosi a un pubblico selezionato e spostandosi in parte su altri media, come avviene nelle nazioni che frequentano l’alfabeto. Sì, più ci penso e più mi convinco che Feltri abbia ragione. Con le dovute eccezioni. Pensando a chi soffre d’insonnia, continuerei a somministrare gratis Marzullo, dietro presentazione di regolare certificato medico.

28.9.09

Germania, la nazione si vendica

Barbara Spinelli

Fin dal 1982, quando l’eccentricità tedesca sembrava a molti un irremovibile dato della storia, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ruppe le regole con un saggio che fece parecchi scontenti in patria e nelle sinistre. Il saggio s’intitolava Difesa della normalità, e raccontava la perseveranza, il silenzio pieno di saggezza, il senso comune un po’ ottuso, materiale, della Germania ricostruitasi dopo il ’45. Le parole altisonanti le erano divenute detestabili, avendo generato disastri. L’eroe da celebrare non era romantico e idealista, non aveva colori smaglianti, non era stregato dal verbo che trascina. Non era un originale.

Il vero eroe era la Trümmerfrau, la donna che raccatta i detriti del paese bombardato e piano piano, cocciuta, taciturna, irriducibile, riaggiusta prima la propria casa sventrata, poi la città, infine la Germania. Angela Merkel risveglia il ricordo di quelle donne, anche se è una donna dei detriti prodotta dalla versione comunista e orientale dell’idealismo nazionale.
Anche lì non son restate che macerie, rovine. Il miracolo tedesco nell’89 si ripeté e produsse ancora una volta la filosofia delle rovine su cui si è edificata la normalizzazione tedesca. Anche il candidato socialdemocratico Steinmeier, con il suo eloquio misurato, incarna questa filosofia. Ascoltiamo ancora Enzensberger: «La normalità è una forza difensiva, ma incapace di rassegnarsi. Non la si lusingherà con opinioni, visioni del mondo, ideologie. Nella sua piccola vita - ma può la vita essere qualcosa di piccolo? - ci sono enormi riserve di laboriosità, astuzia, disponibilità all’aiuto, indocilità, energia, voglia di vendetta, prudenza, coraggio, selvatichezza». Con queste riserve la Germania è diventata profondamente democratica, allergica a politici carismatici gridati. Le scosse estreme le ha superate con un lavoro su di sé, e sulla memoria, senza eguali in Europa. Qui i grandi dibattiti non s’insabbiano come da noi: né sul nazismo, né sul ’68 e il terrorismo, né sul revisionismo storico.

Ne è risultata una sorta di ottusità noiosa, che Roger Cohen descrive magistralmente sul New York Times del 24 settembre e che ha grandi virtù e anche vizi: c’è qualcosa nella dullness tedesca che secerne massima puntualità, e poca sottigliezza. Ma è questa non sottile puntualità che ha infine consentito la «digestione del crimine», e ha estinto la catastrofe che è stata, nel cuore d’Europa, l’«eruzione dello Stato-nazione tedesco» fra il 1871 e il 1945. La storia della normalità tedesca ha oggi 64 anni: poco meno della storia dell’eruzione.

Il desiderio di normalità ha coinciso con l’adesione entusiasta all’Europa unita, dopo il ’45. Grazie a politici come Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la Germania si è sgermanizzata, come ha scritto sulla Stampa Gian Enrico Rusconi, e nell’Unione è stata il Paese che con più convinzione ha scelto la fine della sovranità nazionale assoluta e il doppio patriottismo tedesco ed europeo. Più che sgermanizzarsi, in realtà, il Paese si liberava dell’idealismo romantico e tornava alla cittadinanza del mondo di Schiller, alla letteratura mondiale di Goethe. Nell’Est tedesco il lavoro su di sé è più lento, essendo cominciato da poco: è il motivo per cui la socialdemocrazia è alle prese con una sinistra (Die Linke) che sarà difficile da assorbire. Se Angela Merkel governasse con i liberali, la socialdemocrazia avrebbe più tempo per accingersi a un compito che sarà lungo e faticoso.
La normalizzazione ha tuttavia i suoi demoni nascosti. Come il pragmatismo, è una virtù che secerne anche chiusure, avversioni al rischio, pensieri e calcoli corti. Un’involuzione simile la Germania la sta vivendo oggi: soprattutto sull’Europa e l’economia. È una svolta iniziata dopo l’89: prima impercettibilmente, poi in maniera più palese, qualcosa è accaduto nella mente tedesca e ha preso a mutarla. D’un tratto, è stato come se tutte le cose in cui la Germania aveva creduto grazie alla filosofia delle rovine - l’Europa, il mondo più vasto della propria casa - avessero perso attrattiva, senso. Come se l’Europa fosse stata, negli anni in cui la Germania aveva tanto creduto in essa, un mezzo più di un fine: un mezzo che aveva riabilitato il Paese, mettendo fine alla sua eccentricità. Che aveva i vantaggi del Persilschein: dello speciale lasciapassare che nel dopoguerra veniva rilasciato dalle forze d’occupazione e ripuliva i tedeschi dalle loro colpe con la forza del detersivo Persil.

La maggioranza dei tedeschi resta europeista ma in modo apatico, anche nelle élite. Riconquistata l’unità si riscoprono le delizie di una certa separatezza, perfino della vecchia specificità nazionale. Si fanno sogni niente affatto nuovi sullo Stato-nazione autosufficiente, sulla sovranità, sulla cura esclusiva del proprio giardino, dei propri interessi immediati. Il negoziato su Opel ha disvelato questa tendenza, ma il culmine è stato raggiunto con la sentenza della Corte Costituzionale sul trattato costituzionale di Lisbona, il 30 giugno scorso: una sentenza che ha detto sì al Trattato, ma no a un’unione europea più perfetta. Per la prima volta, un’istituzione tedesca di massimo rango mette in guardia contro salti di qualità della costruzione europea e ricorda che la sovranità della nazione è un principio costituzionale irrinunciabile. Riccardo Perissich, che per anni ha lavorato nelle istituzioni europee, ha criticato il verdetto con pertinenza, in un articolo per Astrid, parlando di gollismo tedesco: «I giudici tedeschi non negano la possibilità di una prospettiva federale, sembrano quasi dire che essa è necessaria. Tuttavia nel definirne le caratteristiche e negando che la legittimità “europea” possa svilupparsi parallelamente a quella nazionale senza sostituirsi ad essa, pongono anche chi vorrebbe fare il salto di fronte ad un fossato talmente ampio e così “tedesco”, da renderlo di fatto invalicabile». La Corte ha svilito perfino la legittimità del Parlamento europeo, contraddicendo le tante battaglie tedesche per l’Europa politica democratica.

Questa regressione è un frutto tardivo della perseveranza un po’ torpida delle generazioni postbelliche, e rischia non solo di paralizzare l’Europa ma di ottundere le menti tedesche nel momento preciso in cui nel mondo si tentano nuove vie di cooperazione. La normalità non impedì in passato alla Germania di essere all’avanguardia nell’inventare l’Europa, lo Stato post-nazionale, la stabilità economica condivisa. Al momento decisivo sacrificò perfino il suo principale attributo di sovranità: la moneta. La questione del clima fu lei a porla e affrontarla per prima. Ora assapora i piaceri non sempre sottili della retroguardia, del rinchiudersi, del potere esercitato per mantenerlo e non per agire azzardando il nuovo e lo slancio. Da realista che era, rispolvera una sovranità non più aggressiva ma non meno illusoria. «I tedeschi stanno accovacciati: non infelici e non ispirati», scrive Cohen. Altri sono ispirati oggi dalla filosofia delle rovine: a cominciare da Obama, che constata la crisi dello Stato-nazione onnipotente, solitario. Sta cambiando posizione perfino Kissinger, che per decenni teorizzò la balance of power alla Metter- nich, l’equilibrio-competizione fra potenze nazionali: un concetto che giudica superato, dopo la crisi dell’economia e dell’egemonia Usa (La Stampa, 23-8-09).

Proprio questo è il momento in cui la Germania della Merkel, invece di tesaurizzare la saggezza postbellica, guarda indietro, si ri-germanizza. Su questo giornale Marcello Sorgi ha evocato con acume la Ostalgie, l’irrazionale nostalgia di muro e di provincia che pervade l’Est tedesco. Ma c’è qualcosa di nostalgico anche nella scoperta tardiva della sovranità nazionale. Qualcosa che rende la Germania un po’ vendicativa come l’Est europeo, e un po’ boriosa come la Francia.

Banda larga o vaccini? Così prospera il digital divide

Gli 800 milioni non sono mai arrivati e Confindustria presenta il rapporto sull'Italia digitale. Che fotografa il divario digitale

Luigi Ferro

“Degli 800 milioni stanziati per la banda larga non ne abbiamo visto nemmeno uno e a un certo punto qualcuno mi ha detto “Vuoi i soldi per la banda larga o i vaccini per i bambini?”. Gabriele Galateri di Genola, presidente di Telecom, conferma il dubbio che gli stanziamenti per la rete superveloce non ci sono più. Un dubbio che era già sorto in occasione di un recente Ballarò televisivo quando, Pierluigi Bersani, candidato alla segreteria del Pd, accusò, senza ricevere nessuna replica, il ministro dell’Economia Tremonti di avere dirottato verso l’Abruzzo gli 800 milioni destinati inizialmente alla banda larga.

La dichiarazione di Galateri è arrivata in occasione della presentazione dell’Osservatorio Italia digitale 2.0 realizzato da Confindustria Servizi Innovativi, che esamina la situazione italiana del digital divide.

Secondo il rapporto esiste un divario di prima generazione (nel quale la popolazione non dispone della banda larga) e uno di seconda (dove la popolazione non usufruisce di servizi con velocità superiori a 20 Megabit). E se il primo si avvia a essere recuperato anche grazie al wireless, per il secondo le prospettive sono pessime. L’Osservatorio non concede molto all’ottimismo e segnala che, per la velocità a 20 Mbit il divario digitale rimane profondo perché per superarlo sono necessari “investimenti molto più onerosi e difficilmente compatibili con gli obiettivi finanziari degli operatori”.

E’ un digital divide “democratico” che non fa differenze fra Nord e Sud tanto che abbraccia regioni come Calabria, Basilicata, Valle d’Aosta, Marche, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. In termini di numero di cittadini esclusi la maggiore incidenza del problema è riferibile a Veneto e Lombardia (dove risiede un bel pezzo del tessuto industriale del Paese) e Sicilia.

La copertura della popolazione arriva all’88% con le tecnologie Dslam e fibra. Il 7% è in una situazione di divario digitale medio che equivale all’assenza di fibra ottica ma con una minima presenza di Dslam o cavi in rame e un 5% di divario di lungo periodo, che non sarà risolto velocemente, dove non ci sono tecnologie Dslam o fibra. In queste zone, sottolinea il rapporto, l’abilitazione dei servizi Adsl richiede interventi lunghi e complessi con la posa di nuove infrastrutture in fibra ottica.

Così il 58% della popolazione risiede in zone dove elevata è la competizione fra gli operatori e più alto il livello di innovazione tecnologica e la qualità delle infrastrutture digitali, mentre il 37% abita in aree dove la copertura Adsl è garantita esclusivamente dalla rete di accesso in rame dell’incumbent. Infine, il 5% si affida al satellite come unica tecnologia per utilizzare l’Adsl.

26.9.09

La libertà di informazione in Rete - FIRMA

Lo scarso impegno della politica nella diffusione della banda larga sul territorio e nell’alfabetizzazione informatica della popolazione e l’inarrestabile susseguirsi di iniziative legislative volte a scoraggiare l’utilizzo della Rete come veicolo di diffusione ed accesso all’informazione costituiscono indici sintomatici della ferma volontà di non consentire che la Rete giochi il ruolo che le è proprio: primo vero mezzo di comunicazione di massa ed esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nella storia dell’umanità.
L’emendamento D’Alia sui filtraggi governativi dei contenuti, il DDL Carlucci contro ogni forma di anonimato, il DDL Lussana finalizzato ad accorciare la memoria della Rete, il DDL Alfano attraverso il quale si vorrebbero applicare all’intera blogosfera le disposizioni in tema di obbligo di rettifica nate per la sola carta stampata e, infine, il DDL Pecorella – Costa, con il quale ci si prefigge l’obiettivo di trasformare ex lege l’intera Rete in un immenso quotidiano e trattare tutti i suoi utenti da giornalisti, direttori o editori di giornali non possono lasciare indifferenti.
Esiste il rischio, ed è elevato, che ci si risvegli un giorno non troppo lontano e ci si accorga che la Rete è spenta e che la prima e l’ultima speranza di uno spazio per l’informazione libera è naufragata.
Muovendo da tali premesse riteniamo importante che la blogosfera e la Rete italiana partecipino alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà di informazione, sottolineando che esiste una “questione informazione in Rete” che non può e non deve passare inosservata perché se la libertà della stampa concerne il presente quella della blogosfera riguarda, oltre il presente, il futuro prossimo di ciascuno di noi.
L’auspicio è pertanto che quanti hanno a cuore le sorti dell’informazione in Rete, il 3 ottobre aderiscano alla manifestazione chiedendo alla politica che, in futuro, ogni iniziativa governativa o legislativa si ispiri a questi elementari principi di libertà e democrazia che costituiscono la versione moderna dell’art. 11 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino:
La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi per l'uomo: quindi ogni cittadino può parlare, scrivere, pubblicare in Rete liberamente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge.
Nessun sito internet può formare oggetto di sequestro o di altro provvedimento che ne limiti o impedisca l’acceso se non in forza di un provvedimento emesso dall’Autorità giudiziaria nell’ambito di un giusto processo.
L’attività di informazione on-line di tipo non professionistico e non gestita in forma imprenditoriale è libera ed il suo svolgimento non può essere soggetto ad alcun genere di registrazione o altro adempimento burocratico.
La disciplina sulla stampa e quella sull’editoria non si applicano alle attività di informazione on-line svolte in forma non professionistica ed imprenditoriale.
Nessuno deve venir molestato per le sue opinioni, fossero anche sediziose, purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge.

25.9.09

Annozero è come un manicomio

(Esempio di articolo di destra scritto da Renato Farina giornalista radiato dall'ordine per aver pubblicato notizie false al soldo dei servizi segreti militari, accusato e condannato per favoreggiamento nel caso Abu Omar - avendo organizzato una finta intervista con i magistrati con il solo scopo di raccogliere informazioni sull'indagine.
Il Farina - nome in codice agente Betulla - è stato premiato per i suoi servigi anche con un seggio da deputato, gentilmente offerto dal PdL)


Santoro dixit, 14 settembre, una decina di giorni fa: «Sappia Berlusconi, che continua ad agire vigliaccamente nell'ombra...». Sappia che cosa? Ecco: la minaccia mafiosa di Michele Santoro all'ex datore di lavoro ieri si è realizzata davanti al pubblico televisivo. Il Mago della Sinistra ha lavorato con tutti i suoi cilindri, petardi, mossette, luci soffuse a simboleggiare la sua coscienza che brilla nella notte del popolo bue. C'erano i pirati con l'uncino al posto del braccio, Michele aveva il pappagallo sulla spalla, a nome Travaglio. Il culmine è stato quando Santoro si è identificato con san Lorenzo Martire e ha attribuito a se stesso le parole del cardinal Bagnasco sul poverettocotto alla graticola dall'imperatore. Scopriamo così che è Michele la notte del 10 agosto a far cadere le stelle dal cielo. Misa che si sopravvaluta anche come martire.Vauro riesce a giocare anche con le bare dei nostri soldati in Afghanistan avvolte dal tricolore. Che pena. È stato un atto di guerra (in)civile quello accaduto ieri sera su Rai 2, prima puntata di «Annozero». A dire la verità ci aspettavamo di più, si dev'essere ammosciato. È stata un'aggressione annunciata per tempo, come il fulmine dopo il tuono. È stato un putsch guatemalteco in età elettronica. Si sa che i golpe ormai non si fanno con i carri armati ma occupando postazioni pubbliche per imporre la propria forza di minoranza, giustificando il sopruso con la propria presunta superiore moralità. Così ieri sera Michele Santoro, accompagnato dal parere favorevole -ma guarda un po' il caso- della magistratura, si è impadronito di nuovo della navicella del popolo televisivo.

È bravo. Efficace. Ha successo. Lo guardiamo tutti, anche perché i gatti spiaccicati attirano sempre lo sguardo. E lui è e la sua squadra sono specialisti nello spiaccicare la gente sull'asfalto del loro linciaggio pubblico. Lo guardano tutti, il Michele. Ma anche Vallanzasca, detto il bel René,funzionava bene nelle rapine, era molto professionale. Michele, con professionalità, rapinala buona fede e pure il canone. Parte da un postulato non dimostrato: in Italia non c'è libertà. E si contraddice subito. Scrive che Il Fatto (réclame gratis) raddoppia la tiratura in due giorni, «gli facciamo gli auguri ». Complimenti. Titolone: «Farabutti». Si comincia lasciando la voce al lamento. Esordisce il Conducator: «State tranquilli, c'è Travaglio, senza contratto ma sistemeremo anche quello». Poi dà voce a Berlusconi: «La Rai...tutte trasmissioni sempre e solo contro la mia parte politica, siamo circondati nella politica nella stampa e nella televisione da troppi farabutti». Lo impana come una cotoletta. È la famosa tecnica del blog. Si ritaglia e si incolla deformando, costruendo grugni grotteschi con parole vere. Ma questo va bene se si chiama satira, se no diventa falsificazione. Quindi tocca lo stesso servizio a Renato Brunetta: «L'Italia sporca, i cattivi dipendenti pubblici, i cattivi magistrati, le cattive banche, quelli che vivono sulle spalle della prima Italia che rischia. Gli stiamo facendo un mazzo così, certoc ulturame parassitario, che sempre ha sputato sentenze contro il proprio Paese... non hanno mai lavorato per un'Italia migliore. Fai bene a chiudere il rubinetto dei fondi pubblici, Sandro Bondi, ai parassitidei teatri lirici, ai finti cantanti, ai finti scenografi... a lavorare!».

Be’,popolaresco, ma ben detto. E che fa Santoro? Un colpo di genio. Abilissimo Santoro. Si fa assumere in cielo dalla Chiesa. Cita il cardinal Bagnasco difensore della «coscienza». E chi è la coscienza? Ma sì, dài che lo sappiamo tutti: è lui, il Santoro. Cita ancora Bagnasco: «All'imperatore Lorenzo dice no». È la predica di Bagnasco riferita a San Lorenzo, San Lorenzo Martire. Masi capisce che pensa a se stesso, a San Michele, a San Travaglio, martiri. Non aveva un contratto della Rai, San Lorenzo, era piuttosto perseguitato, ma fa niente, sono particolari. Tocca a Franceschini. Domanda: «C'è un pericolo per la libertà di stampa?». Come si vede un quesito duro, che mette in ginocchio Franceschini. Risposta: come ve la immaginate, cioè tutta colpa di Berlusconi, proprietà di Berlusconi delle tivù, uno scoop. Accusa Berlusconi: «Intimidazione, sta intimidendo gli imprenditori perché non diano pubblicità a Repubblica. Ci dev'essere una forte mobilitazione per la libertà di stampa. La battaglia per la libertà di stampa dev'essere senza colori ». In effetti lui la spinge verso il grigio topo, Santoro va verso il rosso,diciamo un rosso noioso. Anche l'amico Mario Giordano è trattato come già capitò a Veronica.

La sua faccia si trasforma in cartone animato e gli appaiono vicino le parole del suo editoriale d'addio al Giornale, recitato come sputasse addosso a Feltri. Il quale spiega pacatamente come abbia dato una notizia su Dino Boffo, e non abbia offerto dossier, ma spiegato una sentenza per molestie a sfondo sessuale, grazie a una fonte affidabile. Che qualcuno smentisca se è capace. Risposta non ci fu. Ma qualsiasi cosa dici lì che non sia secondo la volontà di Casa Santoro e San Travaglio, sei infilato nell'acido muriatico. Di solito prendono in giro Giordano per la sua voce. Stavolta lo doppiano con voce viriloide, come fosse un coro greco. Pensavamo fosse una puntata contro il Berlusca, ma alla fine si scopre che il bersaglio preferito è Feltri. Infilzato secondo antica tecnica da quelli che passano per berlusconiani. Così Michelazzo usa Filippo Facci, finto puro della destra, come il prezzemolo per il suo polpettone di calunnie. Contro chi? Feltri. Dev'essere lui che impedisce la libertà di stampa, l'unico che aumenta la vendita di giornali, e così porta via le copie agli altri, ohi ohi. Quindi MarcoTravaglio. Mescola frasette su ragazze e festini, Silvio e Massimo, infine il favoloso gioco di parole su «pulp»e«palp». Bravissimo,un genio bollito, con la maionese sarebbe anche gradevole. Giorgio Bocca arriva a 89 anni e ci comunica che invece di temere la morte ha paura di Feltri. Facci a 42 anni hai il problema di dover parlar male della Carfagna e di non riuscirci (e così riesce a sparlarne senza fornire un solo motivo, senza che lei possa difendersi), e tutti molto, molto preoccupati di questo spaventoso problema di Facci. È la fiction, bellezza, fatta passare per realtà, per stampa. Che Paese. Che Rai. Povera Italia.

19.9.09

Google diventa editore con due milioni di titoli

La biblioteca virtuale di Google diventa improvvisamente reale con titoli quasi dimenticati, ma che hanno fatto la storia della letteratura da Mark Twain a Carlo Collodi, passando anche per Alice nel paese delle meraviglie e Jane Eyre. Così dopo aver passato 5 anni a scannerizzare libri, Google si prepara a riportali in formato cartaceo grazie ad un accordo stretto con On Demand Books, la società che ha inventato Espresso Book, la macchina capace di stampare volumi da 300 pagine con copertina rigida in meno di cinque minuti.
La decisione di un colosso dell'online come Google di puntare sull'editoria tradizionale sembra però stonare con il recente successo dei libri elettronici. Basti pensare a The Lost Symbol, l'ultimo libro di Dan Brown (l'autore del Codice da Vinci) che ha venduto più copie nella versione e-Book scaricabile su Kindle che in cartaceo. La mossa di Google però riporterà in vita oltre 2 milioni di libri spariti anche dalle biblioteche.
Di fatto saranno edizioni economiche con un costo di circa 8 dollari (5,45 euro) di cui 3 serviranno a coprire i costi di produzione sostenuti da On Demand Books. Nelle casse del colosso di Mountain View entrerà un dollaro e il resto sarà donato in beneficienza. «La missione di Google è di rendere più accessibili i libri del mondo», ha detto Jennie Johnson, portavoce della società, ammettendo che il volume di carta resta un oggetto desiderabile per buona parte del pubblico nonostante il successo dell'editoria online. «Il cerchio si sta per chiudere. Gli utenti potranno ottenere la copia fisica di un libro del quale esistono magari due sole copie in alcune biblioteche del paese, o del quale magari non esistono più copie», ha detto la Johnson.
La novità – almeno per il momento – non riguarderà l'Italia perché le macchine Espresso per l'instant publishing, che nel 2007 hanno ricevuto da Time un premio per l'invenzione dell'anno, sono disponibili solo nel mondo anglosassone nei campus universitari e nelle biblioteche. Costano circa 100 mila dollari l'una, ma On Demand, che già offre ai suoi clienti oltre un milione di titoli punta a concederle in affitto ai rivenditori. Google consentirà la pubblicazione di titoli quindi non più protetti da copyright. «La riscoperta di questi titoli non è un problema» dice Marco Polillo, presidente degli editori italiani «piuttosto – continua – mi incuriosisce che Google, dopo aver iniziato a pubblicare notizie online ogni secondo, torni al buon vecchio libro». A preoccupare il numero uno dell'Aie è invece il confine tra titoli protetti e non protetti: «Ho sentito parlare del 1923 come data limite, in realtà in Europa si considerano i 70 anni dalla morte dell'autore».
Alla libreria istantanea potrebbero aggiungersi milioni di altri testi se a Google verrà dato il diritto di scannerizzare e vendere libri protetti da copyright ma non più in commercio: ottenendo tale diritto, il catalogo del colosso di Mountain View potrebbe rapidamente raggiungere i sei milioni di volumi. Se ne sta occupando un tribunale di New York dopo che Microsoft, Sony, Amazon, e le autorità antitrust, si sono opposti sostenendo che in tal modo Google avrebbe il monopolio sui libri fuori stampa. Evidentemente la carta stampata è ancora molto più sexy di quanto si creda. «I libri sono bellissimi – prosegue Polillo –, ma non sono come le tv che parla. Bisogna essere attenti e voler dedicare tempo alla lettura. Il problema non è certo nell'offerta, già vastissima, quanto nella mentalità dei lettori».
G. Bal.

17.9.09

Reuters Blogs - Google turns scanned books back into paper

Google turns scanned books back into paper

Posted by: Alexei Oreskovic
Tags: Mediafile, , ,

Google’s plan to digitize copyrighted books is under legal attack.

But the Internet giant is stepping up its PR offensive to convince consumers of the benefits wrought by its broader book scanning project.

Exhibit A: the Espresso Book Machine.

The contraption pictured here can produce bound paperback books, from hard-to-find works of literature to little-known cookbooks, in a matter of minutes.

The machine itself is not Google’s; it’s the creation of On Demand Books. On Wednesday, the companies announced a deal giving On Demand and its Espresso Machine access to Google’s digital library of 2 million public domain titles.

Until now, the works digitized by Google were available only as digital files for reading on computer screens or electronic readers. With the Espresso machine, the companies say, consumers will be able to bury their noses in old-fashioned, hardcopy versions of their desired books – many of which have been have been out of print for years.

On Demand Books says it currently has 16 of its book-making machines at bookstores, libraries and other locations and plans to have 34 of the machines (which are priced starting at $75,000) next year.

The machine will only crank out books from Google’s archive with expired copyrights, which in the United States means they were published before 1923. Google is currently seeking court approval of a settlement with groups representing publishers and authors regarding its use of scanned copyrighted books.

16.9.09

Tra insulti e menzogne

di CURZIO MALTESE

C'è poco da commentare sulla puntata di "Porta a Porta" di ieri sera. Bisogna passare ai fatti. Registrare tutto e inviarlo al resto del mondo, via Internet, con una sola parola d'accompagnamento: "aiuto!". Tre ore di spot governativo, con il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, autoproclamatosi "superiore a De Gasperi", senza alcun contraddittorio, non soltanto in studio, ma nell'etere intero. Che ne penseranno nei paesi democratici?

Il Presidente Ingegnere, come scriveva Augusto Minzolini prima d'essere premiato con la direzione del Tg1, che consegna le prime case ai terremotati abruzzesi, è l'ultima versione dell'Uomo della Provvidenza. Bruno Vespa lo prende sottobraccio, da vecchio amico, fin dalla prima scena. A spasso fra le macerie dell'Aquila e della democrazia italiana. I commenti del conduttore spaziano fra "ma questo è un record!" a "un altro record!", fino a sfociare "è un miracolo!". Ma Onna, i terremotati e il loro dolore, la ricostruzione dell'Aquila, ancora di là da venire, sono soltanto pretesti.

Dopo mezzora si capisce qual è il vero scopo della trasmissione a reti unificate. Un attacco frontale alla stampa, anzi per dirla tutta a Repubblica. Noi giornalisti di Repubblica siamo "delinquenti", "farabutti" che ci ostiniamo a fargli domande alle quali il premier non risponde da mesi. Se non con questo impasto di minacce e menzogne, come la favola della "perdita di lettori e copie": un'affermazione smentita dalle vendite del giornale in edicola che sono in costante ascesa.

Ecco lo scopo di non avere un Ballarò e neppure un Matrix fra i piedi. Non tanto e non solo per disturbare il "vi piace il presepe?" allestito sulla tragedia del terremoto. Quanto per non rischiare un contraddittorio durante la fase di pestaggio.

Vespa non ci ha neppure provato, a parte il minimo sindacale ("Nessuno di Repubblica è presente"). Lasciamo perdere gli altri figuranti. Nessuno, nell'affrontare il problema dei rapporti con Fini, ha chiesto al Cavaliere un giudizio sui dossier a luci rosse contro il presidente della Camera sventolati come arma di ricatto da Vittorio Feltri, direttore del giornale di famiglia.

Già una volta il presidente del Consiglio era andato nel cosiddetto "salotto principe" della televisione, a "chiarire le vicende di Noemi e il resto", senza chiarire un bel nulla e con i giornalisti presenti, fra i quali il solito Sansonetti, il quale non poteva mancare neppure ieri sera, tutti ben contenti di non rivolgergli mezza domanda sul caso specifico. Stavolta però si è polverizzato davvero ogni primato d'inciviltà. Ma che razza di servizio pubblico è quello che organizza simili agguati? E' un'altra domanda che probabilmente non avrà mai risposta. Non da Berlusconi e tanto meno dai sottostanti vertici della Rai.

Il meno che si possa dire è che la puntata di "Porta a Porta" ha dato ragione a tutte le critiche della vigilia. Anzi, è andata molto oltre le peggiori aspettative. Ed è tuttavia interessante notare l'evoluzione del caso Berlusconi. Che senso ha attaccare la stampa indipendente al cospetto di una platea televisiva che poco o nulla sa delle inchieste di Repubblica e degli scandali del premier, dello stesso discredito internazionale che circonda ormai la figura di Berlusconi in tutto il mondo libero? E' davvero singolare che sia proprio Berlusconi a parlarne. Da solo, visto che i prudenti giornalisti chiamati a fargli ogni volta da corte, astutamente si guardano bene dal citare questi fatti. Per capirlo, ci vorrebbe uno psicoanalista, di quelli bravi.

Alla fine, a parte lo scempio d'informazione, cui ormai si è quasi abituati, indigna più di tutto la strumentalizzazione del dolore della gente abruzzese. La diretta in prima serata e l'oscuramento della concorrenza era stato giustificato dalla Rai con l'urgenza dell'evento, la consegna dei primi novantaquattro appartamenti agli sfollati del terremoto. Chiunque abbia seguito la serata ha potuto constatare come questo fosse appena un miserabile espediente, liquidato in pochi minuti, con qualche frase di circostanza e commozione da attori. Per poi passare al regolamento di conti con chiunque osi criticare il presidente del Consiglio. Ce la potevano risparmiare, questa serata di veleni e sciacalli.

È caduta una Mariastella

di Roberto Di Caro e Denise Pardo

Un curriculum scolastico anonimo. Una laurea in legge senza lode. Una trasferta a Reggio Calabria per il praticantato legale. Poi la folgorante carriera politica. La vita da mediocre della ministra che voleva fare la ballerina e che ora infiamma la scuola

Finora le fabbriche sono state silenziose. Perfino i magistrati sono spaccati. Lei, Mariastella Gelmini, ha portato in piazza tutti: professori, genitori, precari, studenti. La sua riforma è la vera sconfitta del terzo governo Berlusconi.

È signorina. Ma di quelle Signorsì. Tremonti vuole tagli a scuola e università e il via alla privatizzazione strisciante: lei esegue, e lancia l'idea di trasformare istituti e atenei in Fondazioni in concorrenza fra loro. Il Vaticano vuole l'ora di religione cattolica come materia piena di insegnamento: per lei è subito una "posizione condivisibile". La tattica è elementare, se vuoi far carriera, non ti puoi fare troppi nemici. Se ne hai (le è capitato quando nel 2000 i suoi di Forza Italia la fecero fuori con una mozione di sfiducia dalla carica di presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda, e poi nel 2005 quando Berlusconi la nominò coordinatrice regionale tra i malumori della nomenklatura), meglio star buona, aspettare, prima o poi non mancherà l'occasione di farseli di nuovo amici. Lei, Mariastella Gelmini, in questo è bravissima. L'ha anche spiegato: "Non è mica un delitto andare d'accordo con tutti".

Gelmini, ovvero la temibile leggerezza dello stare nel mezzo (secondo le anime buone) o della mediocrità (secondo quelle malvage). Non male per una che ogni due per tre sillaba, enuncia, predica la meritocrazia. Tattica o carattere? Sarà che ha frequentato le elementari dai preti, 1.700 anime nella Bassa bresciana. Dove suo padre Italo, agricoltore e allevatore, era stato sindaco Dc e, divorziato senza scandalo dalla moglie Carmelina, aveva sposato Wanda, la mamma di Mariastella. Tuttora ci vivono Giuseppe e Cinzia, figli della prima moglie, ma legatissimi alla sorella, modello famiglia allargata. Il primo, che ha un magazzino di prodotti per l'allevamento, è dall'aprile 2008 vicesindaco Pdl; la seconda, insegnante elementare, è rappresentante sindacale Cgil. Scoppiò un mezzo putiferio quando, il 30 ottobre 2008, Cinzia non aderì allo sciopero generale degli insegnanti e si mise in aspettativa non retribuita.

Gelmini voleva fare la ballerina. Le è andata male: è diventata ministro. Alle medie, Luigi Sturzo della vicina Gottolengo, dove fino ai 15 anni vivrà in una cascina, Mariastella è la passione della sua professoressa, Maria Nunziata Terzo: studia danza, conduce la battaglia contro l'intercalare dialettale "pota", aiuta il compagno down. Al liceo classico le cose si fanno più complicate. Ne cambia tre: il Manin di Cremona dove frequenta i due anni di ginnasio, poi lo statale Bagatta di Desenzano dove comincia la prima liceo per lasciarlo a dicembre e spostarsi a Brescia, liceo privato diocesano Cesare Arici, lo stesso dove aveva studiato Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI: "Sì, abbiamo fama di severità, ma senza particolari asprezze", racconta Gian Enrico Manzoni, che della liceale Mariastella fu l'insegnante di greco e latino. Quanto al carattere, Manzoni la descrive "riservata, né un'isolata né una leader, nessuna bega con i compagni, non che io ricordi almeno": già allora tendeva ad andare d'accordo con tutti. "Non ero la prima della classe, ma non ho mai avuto problemi", ha sintetizzato quel periodo l'interessata. È vero. In pagella prese 5 in latino scritto al primo quadrimestre, "ma era un'alunna diligente, anche se non mi viene in mente nessun particolare amore per questo o quell'autore, e a fine anno conquistò il 7", ricorda Manzoni. In greco, italiano, matematica oscilla sempre fra il 6 e il 7. Scienze 7, arte e storia 8. Alla maturità, siamo nel luglio 1992, uscì con 50/60.

Proprio del provvedimento sul voto di condotta, e dell'altro che richiede il 6 in tutte le materie per essere ammessi all'esame di maturità, parlano Manzoni e Gelmini ormai ministro quando, a fine 2008, si reincontrano. Il suo liceo la invita a una rimpatriata, ma in tutta Italia scoppia la protesta degli studenti e lei sparisce dalla circolazione: figuriamoci se rischia una contestazione proprio davanti alla sua vecchia scuola, sai che chicca per i giornali. Invita però Manzoni al ministero. "Fu molto gentile. Cercai di convincerla che, sotto l'apparenza del rigore e del merito, quei suoi due atti avrebbero sortito effetti opposti".

15.9.09

Italia anche questa è democrazia

GIAN ENRICO RUSCONI

Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia che c’è. O che ci meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli sprovveduti o dei turlupinati? Stento a crederlo. O se sono complici, di che cosa sono complici esattamente?

L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti i fenomeni attuali segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono per differenza da ciò che c’era prima - un prima spesso idealizzato.

Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia del catastrofismo - c’è mai stato un momento storico in cui funzionava una buona democrazia o quanto meno una democrazia accettabile? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo. Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», «la democrazia senza alternanza», «l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell’applauso» (Bobbio 1984)?

Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?

Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia natura). Ma perché soltanto nel nostro Paese questi fattori hanno prodotto l’ascesa irresistibile di un personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi) sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti? Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni bufera.

I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e intellettuali, si tengono ben stretto il successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun serio tentativo di dare una forma concettuale o ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a parlare e a dettare l’agenda politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri reagiscono, compresa l’opposizione. L’indifferenza intellettuale personale del Cavaliere verso la qualità culturale del consenso/dissenso di cui può godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi gli intellettuali di professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il giornalismo nasconda l’ostilità al ceto intellettuale come tale. Se è così, siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese tradizionalmente caratterizzato dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma a ben vedere l’impoverimento della riflessione politica e ideologica è l’altra faccia della logica del sistema comunicativo mediatico-televisivo rispetto alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della cultura. La politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso mediatico continuo.

Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un istante a riflettere. Per decenni a sinistra la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche al sistema italiano) e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.

Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due ragioni: per la rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la centralità assegnata nel gergo politico al concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della Lega. In entrambi i casi il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.

Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori». Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali seguendo il leader. Di più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia. Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti a una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.

Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare l’anomalia italiana molti analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.

E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di negare l’esistenza di gruppi, settori, pezzi di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma è inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico» come se fossero due poli ed entità autonome.

Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da decifrare. Le pulsioni autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non sono sufficienti per tracciare una diagnosi di una possibile, sia pure soffice, fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi democratici nel Paese, dentro e fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo tuttavia ad una mutazione profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta. Ma può e deve essere guidata. Chi ne ha la capacità?

L'indice della felicità

Massimo Gramellini

La culla dell’Illuminismo ha sfornato un’idea non peregrina: l’uccisione del famigerato Pil, il prodotto interno lordo che da decenni è lo strumento pressoché unico con cui si valuta il peso specifico delle nazioni. Una commissione di economisti insediata in Francia da Sarkozy propone di sostituirlo con un indice che tenga conto non solo della quantità, ma anche della qualità della vita: tempo libero, ambiente, servizi pubblici.

Aiuto. Come essere umano ne sono entusiasta. Ho sempre detestato la religione dei numeri, questo Auditel esistenziale in base al quale l’importanza di un popolo o di una persona viene fatta dipendere soltanto dalla massa di cose che produce e possiede. Ma come italiano temo che le nuove regole ci trascinerebbero nel girone dei dannati. Già il nostro Pil deve sottrarre dal computo i guadagni degli evasori e dei mafiosi (che insieme fanno praticamente un altro Pil). Se poi l’indice dovesse allargarsi alle esperienze mistiche che ogni giorno colorano la vita di chi decide di spostarsi da una città all’altra o di chiedere un documento in un ufficio, prevedo che la nostra partecipazione ai G8 e ai G20 si ridurrebbe al ramo «ricevimento e catering». A meno che gli economisti di Sarkò inseriscano nel paniere del benessere la voce «anarchia e impunità», che all’estero molti ci contestano e al tempo stesso ci invidiano: allora rischieremmo di tornare in testa, e per distacco.

14.9.09

Intervista a Joseph Stiglitz - "Stiamo peggio di un anno fa. Servono regole"

di Molinari Maurizio

Il Nobel: il sistema è rimasto fragile e le banche sono ancora più grosse

Servono nuove regole e in fretta, oggi a Wall Street la situazione è peggiore rispetto a un anno fa». Il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz dà un giudizio severo su quanto avvenuto dall’indomani del crollo della banca di investimenti Lehman Brothers: «Sembra che non abbiamo imparato nulla».

Perché ritiene che la situazione sia peggiorata?
«Per il semplice motivo che in America abbiamo banche assai più grandi di quelle che c’erano un anno fa mentre non abbiamo varato le regole necessarie per garantire una maggiore protezione del denaro dei risparmiatori e degli investitori».

Partiamo dalle banche «troppo grandi per fallire».
«Sono il pericolo più evidente. L’idea di avere delle banche "troppo grandi per fallire" si è rivelata nella crisi dello scorso anno il vero tallone d’Achille del nostro sistema finanziario. Hanno avuto comportamenti ad alto rischio. Ma cosa è avvenuto dopo la caduta di Lehman Brothers? Anziché farle diminuire di numero e dimensione, sono aumentate. Ci troviamo adesso di fronte a quattro-cinque istituti finanziari giganteschi, le cui dimensioni tengono in ostaggio l’intero sistema finanziario. E continuano a crescere, sommando percentuali da capogiro della quantità di mutui erogati e carte di credito emesse».

Qual è il problema connesso all’eccesso di dimensioni?
«L’assenza di controlli. Le dimensioni sono tali da renderli impossibili e il tutto si riduce a un assegno in bianco sulla gestione che, di fatto, gli viene dato dai regolatori. Aprendo la strada a eccessi, errori e sbandamenti che mettono a rischio i soldi degli investitori e la tenuta dell’economia».

Quali regole sarebbero necessarie?
«Quelle di cui il governo e la Federal Reserve parlano da tempo ma che continuano a non esistere e, anche quando ci sono, a non essere applicate. Servono maggiori controlli sui bilanci, sulle transazioni, sui movimenti, soprattutto a garanzie della liquidità delle banche. Ciò che portò al fallimento di Lehman Brothers fu l’eccesso e la simultaneità di tutte queste mancanze. Ebbene da allora è cambiato davvero poco».

Fu un errore far crollare la banca di Lehman Brothers?
«Avrebbero potuto esservi altre soluzioni. Si sarebbe potuto intervenire in maniera da scongiurare il rischio della crisi finanziaria che venne innescata da quel crollo. La scelta fatta all’epoca fu frettolosa, compiuta sotto la pressione del momento al fine di mandare un segnale a Wall Street sul fatto che gli eccessi del passato non sarebbero più stati consentiti. In realtà è avvenuto il contrario. Dunque sarebbe stato meglio evitare il crollo e intervenire con il bisturi per sanare le ferite finanziarie dove sono».

Dunque ritiene che nuovi crolli siano possibili?
«Certo che lo sono. Non c’è alcun dubbio in proposito. Siamo in una situazione di maggiore pericolo rispetto all’autunno 2008 perché il crollo di una delle banche "troppo banche per fallire" innescherebbe un terremoto di dimensioni maggiori. Il rischio che corriamo è che per salvare questi istituti finanziari potremmo trovarci presto nella condizione di dover sacrificare la riforma della Sanità oppure i fondi della "Social Security", la previdenza sociale. Il governo federale ha già immesso sul mercato volumi molto alti di denaro. In situazioni di pericolo potrebbe essere obbligato ad attingere alle risorse necessarie per realizzare le riforme di cui parla il presidente Obama».

4.9.09

Se il «padrone» chiede 200mila euro

di Silvia Ballestra

Eccomi qui: io, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e 200.000 euro che ci dividono. Il prezzo (richiesto) dell’intimidazione che l’uomo più ricco e potente d’Italia lancia a una scrittrice che vive soltanto del suo lavoro, proprietaria soltanto delle sue opinioni e padrona di scriverle su un giornale indipendente. Uno dei pochi giornali che Silvio Berlusconi non può comprare, né controllare, e che per questo tenta di uccidere. Duecentomila euro, cifra spaventosa. Undici anni di lavoro di un italiano medio, e per me pure di più. Un paio di settimane di Ronaldinho. Cento notti di lavoro (duro lavoro, aggiungo) di Patrizia D’Addario (secondo quanto da lei dichiarato e pagati dall’imprenditore Tarantini, questo lo aggiungo per gli avvocati). Trentatré virgola tre periodico ciondoli come quelli regalati alla giovane Noemi Letizia dal padrone di tutto che lei chiama papi. Quattro o cinque spot sulle sue reti in serata di grande audience e quindi di subcultura deleteria per il Paese. Quasi un terzo dei soldi gentilmente donati all’avvocato Mills dall’imprenditore Berlusconi in cambio di testimonianze compiacenti, secondo una sentenza di primo grado del Tribunale di Milano.

Duecentomila euro. Un sacco di soldi, troppi, per una persona normale. Il tutto, per aver espresso delle opinioni. Non male per uno che ha tutto e che - nessuno lo nota mai, ma è proprio così - è pagato nelle sue funzioni anche con i miei soldi. Che vola su voli di Stato (anche) a mie spese. Che dovrebbe lavorare (anche) al mio servizio di cittadina. Che dovrebbe fare (anche) i miei interessi. Un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio, il Presidente del Consiglio dei ministri di cui non sono per nulla, ma proprio zero, soddisfatta. Incredibile che io possa dire questo di un capo della Azienda sanitaria locale, di un funzionario comunale, di un travet qualunque, e non del signore che (purtroppo) governa il nostro Paese e le nostre vite. Da troppo tempo. Ecco, ho pensato tutto questo. E poi ho pensato anche: non li ho 200.000 euro. Peccato.

Resto idealmente e moralmente dove sono sempre stato

Sua Eminenza Reverendissima
Cardinale Angelo Bagnasco
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Sua Sede

Eminenza Reverendissima,
da sette giorni la mia persona è al centro di una bufera di proporzioni gigantesche che ha invaso giornali, televisioni, radio, web, e che non accenna a smorzarsi, anzi. La mia vita e quella della mia famiglia, le mie redazioni, sono state violentate con una volontà dissacratoria che non immaginavo potesse esistere.

L’attacco smisurato, capzioso, irritualmente feroce che è stato sferrato contro di me dal quotidiano «Il Giornale» guidato da Feltri e Sallusti, e subito spalleggiato da «Libero» e dal «Tempo», non ha alcuna plausibile, ragionevole, civile motivazione: un opaco blocco di potere laicista si è mosso contro chi il potere, come loro lo intendono, non ce l’ha oggi e non l’avrà domani.

Qualcuno, un giorno, dovrà pur spiegare perché ad un quotidiano – «Avvenire» – che ha fatto dell’autonomia culturale e politica la propria divisa, che ha sempre riservato alle istituzioni civili l’atteggiamento di dialogo e di attenta verifica che è loro dovuto, che ha doverosamente cercato di onorare i diritti di tutti e sempre rispettato il responso elettorale espresso dai cittadini, non mettendo in campo mai pregiudizi negativi, neppure nei confronti dei governi presieduti dall’onorevole Berlusconi, dovrà spiegare – dicevo ? perché a un libero cronista, è stato riservato questo inaudito trattamento.

E domando: se si fa così con i giornalisti indipendenti, onesti, e per quanto possibile ? nella dialettica del giudizio ? collaborativi, quale futuro di libertà e di responsabilità ci potrà mai essere per la nostra informazione? Quando si andranno a rileggere i due editoriali firmati da due miei colleghi, il “pro” e “contro” di altri due di essi, e le mie tre risposte ad altrettante lettere che «Avvenire» ha dedicato durante l’estate alle vicende personali di Silvio Berlusconi, apparirà ancora più chiaramente l’irragionevolezza e l’autolesionismo di questo attacco sconsiderato e barbarico.

Grazie a Dio, nonostante le polemiche, e per l’onestà intellettuale prima del ministro Maroni e poi dei magistrati di Terni, si è chiarito che lo scandalo sessuale inizialmente sventagliato contro di me, e propagandato come fosse verità affermata, era una colossale montatura romanzata e diabolicamente congegnata. Fin dall’inizio si era trattato d’altro. Questa risultanza è ciò che mi dà più pace, il resto verrà, io non ho alcun dubbio.

E tuttavia le scelte redazionali che da giorni taluno continua accanitamente a perseguire nei vari notiziari dicono a me, uomo di media, che la bufera è lungi dall’attenuarsi e che la pervicace volontà del sopraffattore è di darsi ragione anche contro la ragione. Un dirigente politico lunedì sera osava dichiarare che qualcuno vuole intimorire Feltri; era lo stesso che nei giorni precedenti aveva incredibilmente affermato che l’aggredito era proprio il direttore del «Giornale», e tutto questo per chiamare a raccolta uomini e mezzi in una battaglia che evidentemente si vuole ad oltranza.

E mentre sento sparare i colpi sopra la mia testa mi chiedo: io che c’entro con tutto questo? In una guerra tra gruppi editoriali, tra posizioni di potere cristallizzate e prepotenti ambizioni in incubazione, io ––ancora – che c’entro? Perché devo vedere disegnate geografie ecclesiastiche che si fronteggerebbero addirittura all’ombra di questa mia piccola vicenda? E perché, per ricostruire fatti che si immaginano fatalmente miei, devo veder scomodata una girandola di nomi, di persone e di famiglie, forse anche ignare, che avrebbero invece il sacrosanto diritto di vedersi riconosciuto da tutti il rispetto fondamentale? Solo perché sono incorso, io giornalista e direttore, in un episodio di sostanziale mancata vigilanza, ricondotto poi a semplice contravvenzione? Mi si vuole a tutti i costi far confessare qualcosa, e allora dirò che se uno sbaglio ho fatto, è stato non quello che si pretende con ogni mezzo di farmi ammettere, ma il non aver dato il giusto peso ad un reato «bagatellare», travestito oggi con prodigioso trasformismo a emblema della più disinvolta immoralità.

Feltri non si illuda, c’è già dietro di lui chi, fregandosi le mani, si sta preparando ad incamerare il risultato di questa insperata operazione: bisognava leggerli attentamente i giornali, in questi giorni, non si menavano solo fendenti micidiali, l’operazione è presto diventata qualcosa di più articolato. Ma a me questo, francamente, interessa oggi abbastanza poco. Devo dire invece che non potrò mai dimenticare, nella mia vita, la coralità con cui la Chiesa è scesa in campo per difendermi: mai – devo dire ? ho sentito venir meno la fiducia dei miei Superiori, della Cei come della Santa Sede. Se qualche vanesio irresponsabile ha parlato a vanvera, questo non può gettare alcun dubbio sulle intenzioni dei Superiori, che mi si sono rivelate sempre esplicite e, dunque, indubitabili. Ma anche qui non posso mancare di interrogarmi: io sono, da una vita, abituato a servire, non certo a essere coccolato o ancor meno garantito. La Chiesa ha altro da fare che difendere a oltranza una persona per quanto gratuitamente bersagliata.

Per questi motivi, Eminenza carissima, sono arrivato alla serena e lucida determinazione di dimettermi irrevocabilmente dalla direzione di «Avvenire», «Tv2000» e «Radio Inblu», con effetto immediato. Non posso accettare che sul mio nome si sviluppi ancora, per giorni e giorni, una guerra di parole che sconvolge la mia famiglia e soprattutto trova sempre più attoniti gli italiani, quasi non ci fossero problemi più seri e più incombenti e più invasivi che le scaramucce di un giornale contro un altro. E poi ci lamentiamo che la gente si disaffeziona ai giornali: cos’altro dovrebbe fare, premiarci? So bene che qualcuno, più impudico di sempre, dirà che scappo, ma io in realtà resto dove idealmente e moralmente sono sempre stato. Nessuna ironia, nessuna calunnia, nessuno sfregamento di mani che da qui in poi si registrerà potrà turbarmi o sviare il senso di questa decisione presa con distacco da me e considerando anzitutto gli interessi della mia Chiesa e del mio amato Paese. In questo gesto – in sé mitissimo – delle dimissioni è compreso un grido alto, non importa quanto squassante, di ribellione: ora basta.

In questi giorni ho sentito come mai la fraternità di tante persone, diventate ad una ad una a me care, e le ringrazio della solidarietà che mi hanno gratuitamente donato, e che mi è stata preziosa come l’ossigeno. Non so quanti possano vantare lettori che si preoccupano anche del benessere spirituale del «loro» direttore, che inviano preghiere, suggeriscono invocazioni, mandano spunti di lettura: io li ho avuti questi lettori, e Le assicuro che sono l’eredità più preziosa che porto con me.

Ringrazio sine fine le mie redazioni, in particolare quella di «Avvenire» per il bene che mi ha voluto, per la sopportazione che ha esercitato verso il mio non sempre comodo carattere, per quanto di spontanea corale intensa magnifica solidarietà mi ha espresso costantemente e senza cedimenti in questi difficili giorni. Non li dimenticherò. La stessa gratitudine la devo al Presidente del CdA, al carissimo Direttore generale, ai singoli Consiglieri che si sono avvicendati, al personale tecnico amministrativo e poligrafico, alla mia segreteria, ai collaboratori, editorialisti, corrispondenti. Gli obiettivi che «Avvenire» ha raggiunto li si deve ad una straordinaria sinergia che puntualmente, ogni mattina, è scattata tra tutti quelli impegnati a vario titolo nel giornale. So bene che molti di questi colleghi e collaboratori non condividono oggi la mia scelta estrema, ma sono certo che quando scopriranno che essa è la condizione perché le ostilità si plachino, capiranno che era un sacrificio per cui valeva la pena.

Eminenza, a me, umile uomo di provincia, è capitato di fare il direttore del quotidiano cattolico nazionale per ben 15 degli straordinari anni di pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: è stata l’avventura intellettuale e spirituale più esaltante che mi potesse capitare. Un dono strepitoso, ineguagliabile. A Lei, Eminenza carissima, e al cardinale Camillo Ruini, ai segretari generali monsignor Betori e monsignor Crociata, a ciascun Vescovo e Cardinale, proprio a ciascuno la mia affezione sconfinata: mi è stato consentito di essere, anzi sono stato provocato a pormi quale laico secondo l’insegnamento del Concilio, esattamente come avevo studiato e sognato negli anni della mia formazione.La Chiesa mia madre potrà sempre in futuro contare sul mio umile, nascosto servizio. Il 3 agosto scorso, in occasione del cambio di direzione al quotidiano «Il Giornale», scriveva Giampaolo Pansa: «Dalla carta stampata colerà il sangue e anche qualcosa di più immondo.

E mi chiedo se tutto questo servirà a migliorare la credibilità del giornalismo italiano. La mia risposta è netta: no. Servirà soltanto a rendere più infernale la bolgia che stiamo vivendo». Alla lettura di queste righe, Eminenza, ricordo che provai un certo qual brivido, ora semplicemente sorrido: bisognerebbe che noi giornalisti ci dessimo un po’ meno arie e imparassimo ad essere un po’ più veri secondo una misura meno meschina dell’umano.

L’abbraccio, con l’ossequio più affettuoso.

Dino Boffo
Milano, 3 Settembre 2009