6.7.06

La mela avvelenata di Alan Turing

Una macchina per aumentare la conoscenza dell'universo, un numero stellare di informazioni, senza interrogarsi sul loro possibile uso
Un frutto intriso di cianuro, lo strano suicidio del padre dell'intelligenza artificiale, l'uomo che aveva contribuito a decrittare i cifrari nazisti «Alan Turing. Una biografia» di Andrew Hodges. L'avventura esistenziale e intellettuale di un protagonista della matematica del XX secolo
Franco Voltaggio

Nel pomeriggio di martedì 8 giugno 1954 a Cambridge, Alan Turing, insigne matematico del King's College, fu trovato morto, compostamente disteso sul letto, dalla sua governante. La presenza di schiuma attorno alla bocca, il reperimento in casa di un recipiente contenente cianuro di potassio e di un barattolo di marmellata pieno di sali di cianuro, condussero gli inquirenti a ipotizzare un decesso per avvelenamento risalente alla notte di lunedì. Stranamente non fu data molta importanza ad una mela, trovata accanto al letto, e più volte morsicata. Il frutto non venne analizzato e non fu così riscontrato il fatto, decisamente probabile, che la mela era stata intinta nel cianuro sì che mangiandola lo scienziato aveva incontrato la morte. Chiusa l'inchiesta, il verdetto del coroner fu di suicidio «attuato in un momento di squilibrio mentale». A queste conclusioni il magistrato pervenne soprattutto sulla scorta di quanto si sapeva di Turing. Infelice, tendente alla depressione, in cura da uno psichiatra, Turing era stato processato due anni prima per omosessualità e condannato alla castrazione chimica, restandone sconvolto. Poco dopo la tragica scomparsa, che privava l'Inghilterra della straordinaria mente di un uomo ancora giovane - era nato nel 1912 - cominciarono a circolare voci inquietanti: Alan Turing non si era suicidato, ma, semmai, era stato suicidato da un qualche agente, inglese o americano, dei servizi segreti. Tanto l'«Intelligence Service» britannico quanto la Cia avevano il timore che Alan, il quale durante la guerra aveva collaborato in una posizione chiave alla decrittazione di «Enigma», il sistema dei cifrari della Germania nazista, e che continuava a lavorare in questo settore di ricerche, potesse divulgare, anche senza volerlo, contenuti coperti da segreto militare. Avrebbe potuto farlo e forse poteva averlo fatto proprio per le sue abitudini omosessuali che lo portavano a incontrare molti giovani nel corso di viaggi incontrollabili, prestandosi a facili ricatti o, più semplicemente, lasciandosi andare a imprudenti confidenze. Si era allora in piena guerra fredda e molti scienziati inglesi - alcuni dei quali, d'altronde, erano fuggiti in Unione Sovietica - erano sospettati di simpatizzare per il comunismo. Ma c'è di più. Nel pubblico inglese e americano, come anche in molti politici, si era creato il terrore di una triangolazione «viziosa», densa di pericolo per il «mondo libero», costituita dai tre angoli della «Big Science», dell'omosessualità e del filocomunismo. Non è allora per nulla inverosimile, anche se non provata, l'eventualità che Alan Turing fosse stato vittima, fra tanti altri, di questa odiosa versione di caccia alle streghe.
Un giovane tra scienza e amore
Questa ipotesi viene ora ventilata da un bel libro di Andrew Hodges, matematico inglese e collaboratore di Roger Penrose (il fisico che mira all'unificazione della meccanica quantistica e della teoria della relatività), Alan Turing. Una biografia (Bollati Boringhieri, pp. 762, euro 19). Va però detto, a merito di Hodges, che l'autore non si lascia sedurre dall'allettamento di scrivere una spy's story. La sua, nella cornice di una biografia documentatissima, è semmai un'implicita indagine sulla relazione tra vissuto dei sentimenti e avventura intellettuale in un protagonista della matematica del XX secolo, uno studio che, tra l'altro, getta una luce insospettata sulla sua omosessualità.
Alan, secondogenito di Julius, funzionario (sino al 1912) del governo indiano, e di Ethel Stoney, di origine in parte irlandese, apparteneva allo strato per così dire inferiore della high class inglese. La sua famiglia non rientrava a rigore né nella nobiltà terriera, né nei ranghi degli status allora ritenuti elevati, come la professione delle armi o quella ecclesiastica. Sotto un certo aspetto i Turing, nell'Inghilterra dell'età imperiale, erano degli outsider, che potevano sperare di uscire dalla loro condizione solo attraverso i figli, sempre che questi frequentassero una buona public school, ossia una scuola privata prestigiosa, che ne facesse dei gentiluomini i quali, una volta diplomati, potessero essere accolti a Oxford o a Cambridge. John, il primogenito, fu così iscritto nella public school di Marlborough e Alan in quella di Sherborne. Alan non riuscì ad adattarsi facilmente al sistema e ai contenuti dell'insegnamento di Sherborne. La scuola, che risaliva al 1550, era incentrata, come del resto tutte le public schools, sull'educazione umanistica: vi venivano impartite lezioni di latino e di greco e si dava la massima importanza a uno stile di composizione e di scrittura che permettesse agli allievi di acquisire una perfetta competenza nell'uso dell'inglese. Anche uno scritto di matematica o di quel tanto di scienza che vi si insegnava doveva rispondere agli stessi requisiti. Alan non solo non mostrava alcuna inclinazione per le lingue classiche, ma sembrava assolutamente insensibile alle regole dello stesso inglese, tanto che per anni i suoi lavori furono disseminati di errori di grammatica e di ortografia. Contemporaneamente mostrò, ancora prima di raggiungere l'adolescenza un forte interesse per la chimica - i suoi esperimenti destavano il dileggio dei compagni che lo vedevano immerso nelle «puzze» - per la natura vivente e per l'astronomia, associandovi una predisposizione per la matematica talmente spiccata da consentirgli di inventare addirittura nuove regole di calcolo e di impostazione dei problemi. Parallelamente, prese a nutrire una forte curiosità per il sesso o, come si diceva allora, per il mistero della vita, arrivando alla conclusione che solo la scienza gli avrebbe fornito le risposte che cercava.
Dalle pagine di Hodges emerge non il ritratto di uno scolaro sostanzialmente asociale e disadattato, infarcito di nozioni scientifiche mal digerite, un infelice che non sarebbe mai diventato un gentleman, ma l'immagine di un ragazzo assetato di conoscenza e di amore, un personaggio, decisamente fuori dagli schemi, che per molti versi ricorda il protagonista dei Turbamenti del giovane Törless di Musil. A 15 anni conobbe Christopher Morcom, di un anno più vecchio di lui, con il quale strinse una calda amicizia. Quando Chris, affetto da una gravissima malattia polmonare di origine virale, il 13 febbraio 1930 morì a Londra, Alan ne provò un dolore tanto forte da indurlo a fare dell'amico un oggetto di culto e della madre di Chris una seconda madre, se non addirittura la sua vera madre.
Da quel che ci dice Hodges non risulta che tra i due giovani vi fosse stata un'esplicita relazione omosessuale, ma non c'è dubbio che il sentimento nutrito da Alan per Chris non fosse tanto un'amicizia, quanto piuttosto un amore, per di più ricambiato. In realtà il luogo di incontro tra loro non era il corpo, né a spingerli l'uno verso l'altro l'eventuale (e naturale) pulsione omofila di due adolescenti, ma il mondo delle idee e degli interessi scientifici condivisi, culminanti nella ricerca della verità. Morto Chris, Alan ebbe più tardi, almeno sino al 1952, frequenti rapporti omosessuali che nascevano in parte dal bisogno di ritrovare in un altro uomo l'amico perduto, in parte dall'esigenza, crescente con l'avvento della maturità, di rompere una solitudine sempre più dolorosa, una volta accettata, non senza travaglio, la sua condizione di omosessuale. Poiché non risulta che in Alan vi fosse una marcata misoginia, la sua omosessualità non può neppure essere spiegata come l'epifenomeno di quella speciale forma di edonismo che contrassegnò in quegli stessi anni personalità eminenti quali l'economista Keynes o lo scrittore Forster. Fu un'altra cosa e, per taluni aspetti, fu il ritorno, nel complicato clima dell'Inghilterra tra le due guerre, dell'eros socratico-platonico in un uomo perso, come si direbbe a Roma, dietro a una visione vertiginosa e ideale della matematica, che invitava perentoriamente alla ricerca di un nuovo altro se stesso, quale era stato lo sfortunato Christopher Morcom, il vero specchio nel quale Alan poteva rispecchiarsi. A guidarci in questa convinzione è la teoria fondamentale del matematico inglese, la «macchina di Turing», alla quale Hodges dedica alcune tra le pagine più penetranti della biografia.
Risposte illegittime
Tra il 1936 e il 1937 Turing pubblicò un lavoro dal titolo On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungs problem («Sui numeri computabili con un'applicazione al problema della decisione», cioè della dimostrazione della congruenza di un sistema matematico). Ora che cosa significa «numero computabile»? E' un numero calcolabile da parte di una macchina. Naturalmente si tratta di una macchina ideale («macchina di Turing»). Seguendo per semplificare la lucida esposizione che ne dà Umberto Bottazzini (vedi «Gödel e gli sviluppi recenti della logica», in P. Rossi, Storia della scienza moderna e contemporanea, UTET, 1988), diciamo che «una macchina di Turing è una macchina capace di un numero finito di stati mentali - detti anche configurazioni - prefissati e dotata di un nastro potenzialmente infinito che l'attraversa in entrambe le direzioni». Il nastro è diviso in riquadri, ognuno dei quali può essere vuoto o contenere un simbolo. «In ogni istante c'è un solo riquadro "in esame" nella macchina e dunque c'è solo simbolo di cui la macchina sia per così dire consapevole. Tuttavia, cambiando la sua configurazione, la macchina può effettivamente ricordare alcuni dei simboli che ha "visto" (esaminato) in precedenza». In buona sostanza, la macchina riproduce schematicamente il meccanismo essenziale di un computer, il suo software, suscettibile di produrre un numero illimitato di operazioni. Sotto questo aspetto, la macchina di Turing costruisce schematicamente una intelligenza artificiale, intendendo con questa espressione una simulazione esaustiva dell'intelligenza propriamente detta, cioè umana. Naturalmente questa simulazione ha un limite preciso, consistente nel fatto che la macchina, se produce, riproduce e traduce informazioni, non contiene tuttavia una peculiarità dell'attività mentale, vale a dire l'intenzionalità. Ci spieghiamo. Se chiediamo a una persona «sai l'ora?», questa ci risponde le «12,22», mentre il computer ci risponde semplicemente «sì» senza darci l'informazione richiesta. Per ottenerla dobbiamo mutare quesito, ossia chiedere «che ora è?», in altre parole modificare la configurazione. A questo punto intervengono alcune riflessioni, alcune delle quali compiute dallo stesso Turing, specie nelle sue conversazioni con Wittgenstein. La prima è di merito. Una macchina di Turing, dotata di un software supportato da un hardware adeguato, può - è vero - aumentare enormemente le nostre conoscenze, ma rischia di fornire risposte illegittime a interrogativi sui quali man muss schweigen (bisogna tacere) come concludeva Wittgenstein nell'ultima proposizione del Tractatus Logico-philosophicus. Dobbiamo evincerne che tutte le questioni di merito, vale a dire le domande di tipo etico, giuridico, teologico, sono fuori - devono esserlo - della portata di una macchina di Turing, ossia dell'intelligenza artificiale. Per contro, se vogliamo avere informazioni sullo stato del mondo o informazioni su contesti di informazioni, la macchina è indispensabile. Lo è, tra l'altro, se vogliamo decifrare la reale natura di un sistema formale. Alla luce della macchina ideale, un sistema formale non è altro che un procedimento meccanico per generare teoremi. In altre parole, sotto il profilo del futuro sviluppo della matematica di essa non possiamo fare a meno. Ma c'è ancora un'altra cosa sulla quale intendiamo attirare l'attenzione del lettore. Dobbiamo chiederci se davvero le questioni di merito interessassero al nostro matematico. Se, in altre parole, non fosse animato da un'angoscia metafisica che non poteva che condurlo a una posizione diametralmente opposta a quella di Wittgenstein. Sospettiamo di sì. Vediamo perché.
La perdita dello specchio
Dalla dettagliata ricostruzione di Hodges apprendiamo che Alan Turing non solo collaborò attivamente alla decrittazione di «Enigma», ma contribuì in modo decisivo, con la messa a punto delle «bombe», cioè dei sistemi di decrittazione, a sottrarre il controllo dell'Oceano Atlantico da parte della Germania già a partire dalla fine del 1942 (pur restituendolo piuttosto agli Stati Uniti che all'Inghilterra che, anche per questa ragione, iniziò ad attraversare il suo declino, perdendo il vecchio ruolo di prima potenza mondiale). Molte delle «bombe» non erano che particolari applicazioni della sua macchina, talché non sarebbe azzardato affermare che uno dei vincitori della seconda guerra mondiale è stato proprio lui. Risulta allora singolare la desolazione e la depressione in cui cadde nei sette anni dalla fine della guerra alla morte. Abbiamo avuto l'impressione, leggendo il suo libro, che la causa prima di questo stato sia per Hodges riconducibile alla caduta di Alan in una sindrome assai simile a quella che afflisse Robert Oppenheimer pentito di aver partecipato al Progetto Manhattan, cioè alla costruzione della prima bomba atomica. Come dire che la macchina ideale si risolveva di fatto in un'usurpazione dei diritti della naturale intelligenza umana. In altre parole, una catastrofe umanitaria, come si direbbe oggi, persino più grave della distruzione di Hiroshima e Nagasaki. In realtà, non è così. Quello cui Alan aveva mirato, con la sua macchina ideale, era proprio pervenire ad aumentare a dismisura la conoscenza possibile dell'universo, accumulando un numero stellare di informazioni, senza chiedersi il perché del loro possibile uso. La macchina era stata per lui la riproduzione del delirio di onnipotenza conoscitiva della fanciullezza e della adolescenza, uno specchio di se stesso. L'utilizzazione pratica glielo aveva mandato in frantumi e, tra l'altro, essendo un tale specchio un sostituto dell'amico morto, aveva compromesso una difficile riparazione del lutto. Ammesso che Alan Turing si sia suicidato, probabilmente mangiando la mela avvelenata, verrebbe fatto di pensare che avesse voluto, lui ateo, ripercorrere a modo suo il mito biblico del frutto proibito. Morderlo non già per acquisire il dono della conoscenza, ma per punirsi di averla per sempre perduta. E' davvero sbagliato pensarlo?


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4.7.06

Sadismo e solitudine nei racconti di Yates

Tassisti con ambizioni letterarie, sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi, coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili: i personaggi dell'autore di «Revolutionary Road» si rendono visibili attraverso lo schermo del loro isolamento. E l'autore americano, tradotto da minimum fax, li racconta innestando la lezione di Fitzgerald su quella di Flaubert

Emanuele Trevi

Forse è un po' esagerata l'affermazione di Kurt Vonnegut, che definisce Undici solitudini di Richard Yates (prefazione di Paolo Cognetti, trad. di Maria Lucioni, minimum fax, pp.261, euro 10,00) addirittura «la migliore raccolta di racconti mai pubblicata da un autore americano». Quello che è certo, in ogni modo, è che si tratta di un'ulteriore dimostrazione della grandezza di questo scrittore nato nel 1926 e morto, dopo una vita non facile segnata da alcolismo e depressione, nel 1992. Spetta alla minimum fax il merito di aver riscoperto l'opera di Yates, non del tutto inedita ma rimasta sostanzialmente inosservata qui in Italia, iniziando a ripubblicarla a partire dal capolavoro del 1961, Revolutionary Road, che è anche il suo libro d'esordio, e proponendo in seguito Disturbo della quiete pubblica, uscito nel 1975. Ma anche negli Stati Uniti sembra in corso una rivalutazione postuma, che fa perno, più che sulla critica in senso stretto, sull'ammirazione professata da molti scrittori, come Richard Ford, Michael Chabon, Tobias Wolff. L'essere spesso considerato uno «scrittore per scrittori» a corto di un grande pubblico dovette essere un altro dei crucci che afflissero la vita di Yates, assieme a quello, ben più grave e paralizzante, della coincidenza tra il primo libro e il suo capolavoro, pubblicato a trentacinque anni e di fatto rimasto ineguagliato.
Undici solitudini uscì a Boston da Little & Brown nel 1962, un anno dopo Revolutionary Road, a confermare la presenza di un nuovo e straordinario talento sulla scena letteraria americana. Yates iniziò a collaborare con dei racconti a riviste letterarie negli anni cinquanta, e dunque questo libro contiene le prime prove della sua arte narrativa. Per rubare l'espressione a Thomas Pynchon (anche lui la usa a proposito dei racconti giovanili), si tratta di un vero e proprio slow learning, il lento apprendistato di uno scrittore alla ricerca del suo timbro, e impegnato a saggiare nel concreto le strategie di rappresentazione che gli dettano l'istinto e la cultura. Quanto a quest'ultimo punto, Yates stesso in più d'una occasione ha dichiarato di aver innestato la lezione di Fitzgerald su quella, fondamentale, di Flaubert. Pienamente flaubertiane, infatti, sono le premesse del suo libro d'esordio: Revolutionary Road è la Madame Bovary di una middle class nevrotica e alcolizzata, che vive nei placidi e lindi sobborghi familiari dove è facile far crescere i bambini e i vicini sono tutti amici e tutti simili, almeno in apparenza. I maschi, la mattina, abbandonano i sobborghi per andare a lavorare a Manhattan. Così come la signora Bovary è identica a migliaia di altre mogli di medici di provincia, anche i coniugi Wheeler sono gente perfettamente normale. Non fosse, tanto per l'eroina di Flaubert quanto per i suoi tragici epigoni inventati da Yates, che per un particolare: il veleno fatale dell'immaginazione, tanto più fatale quanto più debole è l'organismo mentale che deve sostenerlo e assimilarlo. Di questo pessimismo antropologico offrono già alcune splendide miniature certi racconti di Undici solitudini, forse con più efficacia dove Yates è già padrone della sua formidabile terza persona che quando usa la prima. Ma in tutti i racconti di questo libro c'è almeno qualche pagina già magistrale.
La loneliness che fin dal titolo dà unità alla raccolta più che fornirne l'argomento (che in effetti risulterebbe molto generico e pretestuosamente valido per tutto) è considerata e trattata da Yates come una tecnica narrativa, una possibilità della rappresentazione verbale. La solitudine, in altre parole, non è un sentimento, e tantomeno un valore incarnato da un personaggio o da una situazione. Non si carica di nessun significato particolare perché tutti i significati le convengono alla stessa maniera e con gli stessi diritti. Sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi in sanatorio, giovani coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili, tassisti con ambizioni letterarie - le creature solitarie di Yates ci si rendono visibili e credibili solo attraverso lo schermo del loro isolamento. Paradossalmente, ciò che li condanna all'infelicità è anche ciò che (sul piano della scrittura) li rende vivi e possibili sul piano estetico. Molti lettori di Yates sono rimasti impressionati dalla sua impassibilità di narratore, da una sostanziale indifferenza al dolore senza riscatto delle sue creature.
Effettivamente, si può sospettare con buone ragioni una certa dose di sadismo in questo tipo di atteggiamento dello scrittore di fronte ai suoi propri fantasmi. In generale, potremmo considerare il sadismo una specie di padre nobile - e di eterno presupposto implicito - di ogni tipo di naturalismo. Nei racconti di Yates il ritmo necessario e implacabile che connette le cause agli effetti finisce sempre per ricordare, più che una semplice spiegazione logica del mondo, una kafkiana macchina per la tortura. E forse, viene da pensare leggendo questi bellissimi racconti, i più grandi scrittori sono quelli che suscitano in noi, di fronte al pathos delle situazioni, sentimenti di ambivalenza. Vorremmo sostituirci allo scrittore, e penetrando nello spazio della pagina, scrollarli per le spalle, i suoi poveri eroi, avvertirli della brutta figura o della catastrofe imminenti. E nello stesso tempo, godiamo della loro rovina, la magia della prosa di Yates è lì per farcela apprezzare come giusta e necessaria. Yates è sadico, tecnicamente sadico anche in questo: allo spessore vischioso dell'identificazione preferisce la distanza della scena, la sua lieve irrealtà, la sua isteria sempre imminente. Quanto al regista, egli lascia che le cose vadano come devono andare, e sorveglia imperterrito l'agghiacciante precisione dei particolari.
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